Nell’evoluzione, o involuzione, della cultura così com’è andata articolandosi nel corso dei secoli si è finito per perdere di vista ciò che costituisce l’essenzialità della nostra esistenza disperdendo significati e scopi in una quantità di rivoli che non nutriti dalla fluidità della fonte presto inaridiscono. Allora forse è utile ritornare agli antichi, quando la semplicità della vita rendeva tutto molto più semplice. Ogni tentativo di collegarsi a una linea evolutiva naturale finisce per scontrarsi sulla necessità di stabilire norme necessarie alla vita civile. L’insorgere della ragione nella coscienza attua in modo diverso il principio animale dell’autoconservazione, l’ equivalente dell’amore di sè non è detto si evolva in estensione progressiva in amore per gli altri ma può solo essere sostituito da una più consapevole e adesione a sè in quanto esseri razionali capaci di produrre criteri universalistici, dai quali scaturisce anche la giustizia. Su questa discontinuità, Zanone aveva fondato la preminenza normativa del saggio che si pone a confronto con la collettività. La sua politeia, scritta secondo i malevoli sulla coda del cane, cioè in odore di cinismo, poteva apparire paradossale, rivoltante solo a chi non comprendesse il rigore perfezionistico che la fondava. Incesto e cannibalismo non sono per natura, come non lo è qualunque norma confezionata dagli uomini. Solo dopo una valutazione razionale adeguata alle circostanze. In altre parole la fondazione di una civiltà presuppone delle regole che vanno osservate pena il ritorno alla condizione primitiva. In un mondo in cui tutto è precario, gli stessi piaceri sono ansiosi, inquietati da timori di ogni tipo, la saggezza si misura sulla garanzia di stabilità che riesce a dare, sulla capacità di tenere a freno gli innumerevoli modi di sprecare la vita che gli uomini inventano cedendo alle loro passioni. La felicità è un corollario, un fine che reca in sè la radice dei turbamenti. Più si ricerca con affanno la vita felice, più ci si perde nella nebbia di desideri confusi che inducono in errore. La ricetta di Seneca per la vita felice fa perno sulla virtù, secondo i canoni più rigorosi dell’autosufficienza stoica. Il sommo bene e l’esercizio della volontà che permette il controllo di sè, la possibilità di perseguire equilibrio che consente di vivere la vera libertà. Costruire la propria esistenza con un parziale dominio del tempo della nostra vita. Platone ci convince a pensare tutte le cose soggette ai sensi che si eccitano, ci attirano, non hanno una propria realtà è una conferma dei molti altri motivi per cui occorre cercare in sé il senso della vita. Seneca a un certo punto accetta l’idea platonica di uno spazio contemplativo. La dottrina Stoica vede il corpo come se fosse un involucro. Verrà il giorno che si staccherà. Il legittimo desiderio di felicità dovrebbe indurci a dare valore alla nostra vita nella sua interezza. Marco Aurelio si esprimeva su com’è importante imprimere bene nella mente la realtà. A proposito dei cibi delicati,di bevande raffinate, nutrirci di un cadavere di un pesce o di un uccello, di un porcello. A proposito dei rapporti sessuali diceva che non sono altro che lo sfregamento di un organo e l’eiaculazione un po’ di muco accompagnato da convulsione. Di fronte a questa realtà noi non dobbiamo rifiutare la vita, ma semplicemente cercare nella vita i valori che la arricchiscono, che danno un senso in primo luogo alla libertà vissuta in modo consapevole. Seneca ripete spesso che la libertà inizia dal controllo di noi stessi, non ricorrendo ad una esasperata razionalità, per la quale non tutti hanno sufficiente intelletto, molto più semplicemente auto- educarci all’esercizio della volontà. Sentimento del bene non significa necessario perseguire la virtù assoluta, semplicemente controllare la nostra vita,decidere coscientemente le nostre azioni.
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