Archives for : novembre 2021

Il simbolo è l’idea che si da esistenza.  0

Winckelmann, il cui influsso fu determinante per la estetica e la filosofia della storia della sua epoca, usa i due concetti, simbolo e metafora come sinonimi, e così fa tutta la letteratura estetica del XVIII secolo. I significati delle due parole hanno infatti una origine di comune; entrambe indicano qualcosa il cui senso non risiede nell’ apparenza immediata, sia l’aspetto visibile o la lettera del discorso, ma in una significazione che va al di là di essa. Ciò che hanno in comune è dunque il fatto che una certa cosa sta per qualcos’altro. Tale connessione di significati, mediante la quale ciò che non è sensibile diventa percettibile con i sensi, ha luogo nel campo della poesia e dell’arte figurativa.

Solo un’indagine accurata potrebbe stabilire più precisamente in che misura l’uso antico dei termini simbolo è allegoria abbia aperto la via alla contrapposizione che per noi è diventata familiare.  Possiamo indicare solo alcune linee fondamentali. Ovviamente i due concetti non hanno all’inizio nulla a che fare l’uno con l’altro. L’allegoria appartiene originariamente alla sfera del dire del logo ed è quindi una figura retorica o ermeneutica. Al posto di ciò che realmente si intende, si dice qualcos’altro, di più facilmente comprensibile, ma in modo che questo faccia intendere quell’altro.

Il simbolo invece, non è limitato alla sfera del logos, giacché  il simbolo non è in rapporto con un altro significato mediante il proprio significato, ma il suo stesso essere sensibile ha significato. Nel suo essere presentato è qualcosa di cui si riconosce qualcos’altro più facilmente comprensibile.

Nel secolo XVIII quando si parla di allegoria si pensa sempre anzitutto le arti figurative.

La posizione positiva di Winckelmann nei confronti della allegoria non corrisponde affatto ai gusti dell’epoca e contrasta con le opinioni dei teorici contemporanei.

Il moderno concetto di simbolo non si può comprendere prescindendo dalla funzione gnostica. Il termine simbolo può passare dall’uso originario in cui sta a indicare il documento, il segno di riconoscimento, al concetto filosofico in cui diventa qualcosa di misterioso, la cui decifrazione è riservata agli iniziati. Il simbolo indica  un’esistenza in cui in qualche modo viene riconosciuta l’idea.

La liberazione della poesia dall’allegoria come la propugna Lessing, significa anzitutto la sua liberazione dalla sottomissione al modello delle arti figurative.

Winckelmann sembra soggetto all’influsso  di Wolff e Baumgarten, quando scrive che il pennello del pittore deve essere intinto nell’intelletto. Egli non respinge l’allegoria in generale quindi non si rifà l’antichità classica per svalutare in confronto ad essa le allegorie moderne.

Schiller , nel fondare l’idea di un’educazione estetica dell’umanità sull’analogia di bellezza e moralità formulata da Kant, si ricollega a indicazioni esplicite kantiane nella quali è posto l’accento sul fatto che il simbolo è l’idea stessa che si da esistenza.

Adattare alla contemporaneità le teorie classiche che hanno tentato di dare all’arte un contenuto gnoseologico e di arricchimento della sensibilità umana appare oggi impresa tanto ardua quanto inutile

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Principio di realtà e rappresentazione.  0

L’arroganza del presente non può opporsi al fatto che la coscienza filosofica debba ammettere la possibilità che la propria intuizione sia inferiore a quella di Platone, Aristotele,Leibniz, Kant, Hegel. Si può considerare un limite il fatto che essa pretenda di modificare il significato di un patrimonio culturale che ha costituito, costituisce, la base di ogni sapere. Una contraddizione ancora più grande è il rifiuto di confrontarsi con il patrimonio storico. Quando Danto usa l’espressione “marciume metafisico”  e afferma che la “La metafisica era priva di senso perché del tutto scollegata dall’esperienza”. Dimostra la propria incapacità di andare oltre a quella che definisce “esperienza”. Cosa significa esperienza? Ridurre la filosofia all’esperienza significa attuare una modificazione ontologica della filosofia in quanto percorso gnoseologico. L’esperienza è delimitata e soggettiva. L’interpretazione e la elaborazione del patrimonio storico non ha alcun nesso con l’esperienza. Il rifiuto del confronto con la tradizione riduce la filosofia nell’angustia di un pensiero isolato, soggettivo. La sostanza del pensiero filosofico passa attraverso la comprensione dei testi dei grandi pensatori il cui oggetto di ricerca è la verità che, se pur difficilmente raggiungibile, è pur sempre il riferimento, la stella polare dell’umano sapere.

Lo stesso vale per l’esperienza dell’arte  Lo studio scientifico della storia dell’arte è senza dubbio velleitario quando pretende di capire e sviscerare l’origine dell’opera d’arte. L’esperienza dell’arte è soggettiva, discutibile la tesi secondo cui, come sostiene Hegel: “l’arte è il pensiero che prende forma”. Oppure l’affermazione di Gadamer secondo il quale “ l’opera d’arte è esperienza di verità” Se anche Heidegger considera la verità dell’arte come evento, questo non ci esime dal considerare il fenomeno evenemenziale nella sua realtà.

Forse dovremmo ammettere che si è verificato un cortocircuito tra filosofia, scienza, arte. L’altare sul quale Gadamer pone l’arte ben più in alto della scienza, è rovinosamente caduto. Intanto perché gli artisti hanno scelto di adottare la tecnologia, figlia minore della scienza, gettando alle ortiche l’epistemologia dell’arte, ma soprattutto perché il venir meno della cultura filosofica e mitologica, ha trascinato l’arte al modesto livello degli artisti ricchi di presunzione,poveri di sapere. Se la scienza valuta se stessa in base agli esiti del proprio operato, l’arte non  può fare la stessa cosa. Se anche si tentasse questa strada, ci troveremmo il percorso sbarrato da rane crocifisse, barattoli di feci, crocifissi immersi nell’urina, orinatoi, tutto il ciarpame che  l’arte contemporanea è andata accumulando nelle case degli squilionari e nei musei.

Le capziose argomentazioni che tentano di dare un senso alla realtà  dell’arte contemporanea, non si basano su fondamenti filosofici degni di questa definizione, l’esperienza della filosofia è il più pressante ammonimento alla Conoscenza. E’ necessario riconoscere i limiti dell’arte sapendo che  la ricerca comincia con una serrata critica della coscienza estetica. L’esperienza di verità che tentiamo nell’incontro con l’arte, è contro la teoria estetica che si lascia dominare dal concetto di verità della scienza e trascura la verità dell’arte come realmente è. Dovremmo sviluppare su questa base un concetto di verità che corrisponda alla totalità della nostra esperienza ermeneutica,  ammettendo che questa ricerca oltrepassa di gran luna la conoscenza metodica della scienza. Ridimensionare le pretese universalistiche e totalizzanti dell’arte è forse il primo passo per ancorare l’arte a un principio di realtà.

 

Immagine: Martin Kippenberger, “Rana Crocifissa”, 1990rana crocifissa

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Spesso la filosofia più che interpretare immagina.  0

L’immagine metaforica che rappresenta un punto centrale della metodologia gadameriana è quella del circolo ermeneutico. Tale immagine si è diffusa a partire da Schleiermacher, ma si è imposta soprattutto con Gadamer che l’ha sviluppata prendendo le mosse da alcuni elementi proposti da Heidegger e le ha dato una configurazione che si può ormai considerare sotto molti aspetti come definitiva.

Per capire la singola parola di un testo occorre comprendere il contenuto in cui è collocata, il patrimonio linguistico dell’autore, il momento culturale dell’epoca cui l’autore appartiene; tale comprensione va fatta sia cercando di intendere il particolare in funzione dell’universale sia viceversa cercando di capire l’universale partendo dal particolare.

Scrive Schleiermacher : il senso di ogni parola in un determinato passo deve essere determinato secondo la sua coesistenza con quelle che la circondano. Il patrimonio linguistico di un autore e la storia della sua epoca costituiscono come il tutto a partire dal quale il suo iscritti così come ogni singolo elemento devono essere compresi e, inversamente, questo tutto deve essere compreso a sua volta a partire dal singolare. Ovunque il sapere compiuto si trova in questo circo apparente, per il quale ogni particolare può essere compreso solo a partire dalle universale di cui è parte e viceversa.

Questo movimento circolare ha come fine la comprensione del tutto,quindi si conclude con tale comprensione.

Ora, è noto che trasformazione del linguaggio segue e accompagna il pensiero. Spesso la nostra visione del mondo non è determinata dalla conoscenza, ma dalla abitudine.

La meticolosità di Gadamer nell’indagare gli sviluppi ermeneutici dell’arte, che con Heidegger diventerà ontologia, mal si conciliano con la prassi della critica e filosofia dell’arte contemporanea. Attribuire all’opera d’arte “esperienza di verità”, se mai è stato vero, oggi non è più così.

L’affermazione di Vattimo :“La trasmutazione in forma è trasferimento del reale sul piano della verità” risulta piuttosto azzardata di fronte a una rana crocifissa e/o un lampadario costruito con tampax. L’ipotesi che la filosofia si abbandoni a esercizi linguistici capaci al più di creare una realtà mentale, sembra plausibile.

William Blake - 500

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Il riflesso nell’occhio.  0

Sono stati necessari secoli di pittura prima che si vedesse sull’occhio quel riflesso senza il quale esso rimane spento e cieco come nei quadri dei primitivi. Il riflesso non è visto per se stesso, dal momento che ha potuto passare inosservato così a lungo, esso esprime la suo funzione nella percezione.  Osservando l’arte contemporanea si nota un evidente regresso. La decontestualizzazione degl’elementi di un opera, crea un effetto di estraniazione che raramente è davvero funzionale. Se di fronte a un paesaggio , assumiamo un atteggiamento critico isolando una parte dell’opera, il colore osservato muta senso. Il verde di un prato  perde il suo valore rappresentativo e diventa puro colore. Cézanne diceva che un quadro contiene persino l’odore del paesaggio. Egli intendeva dire  che la distribuzione del colore sulla tela, guida la fantasia dell’osservatore, ne stimola i  sensi sotto l‘effetto dell’emozione estetica. In ogni opera c’è un simbolismo che indirizza  e lega ogni qualità sensibile. Il colore si da all’esperienza come una specie di vibrazione. I dati sensibili sotto il nostro sguardo  costituiscono il linguaggio della pittura che si insegna da se, in cui il significato è secreto dalla struttura stessa dei segni. L’apparenza sensibile è ciò che rivela (kundgibt) , esprime ciò che essa stessa non è. La comprensione del linguaggio pittorico è ostacolata  dai pregiudizi del pensiero oggettivo al quale gli artisti contemporanei sembrano essersi arresi. Tale pensiero  ha la costante funzione di ridurre tutti i fenomeni, quindi anche l’arte, ad attestare l’unione del soggetto con il mondo, finisce quindi per sostituire l’utopia progettuale propria dell’arte, con la piatta razionalità assettata di definizioni. Come diceva Berkeley, anche un deserto inviolato se ha per lo meno un osservatore subisce l’esperienza mentale di recepirlo e quindi subisce le mutazioni del pensiero  che lo “interpreta”. Tale pensiero ha la funzione tradurre la visione in idea. Il “reale” è quel contesto in cui ogni momento è non solo inseparabile dagl’altri, ma in certo qual modo sinonimo  degl’altri, in cui gli “aspetti”  si significano vicendevolmente  in una equivalenza assoluta. E quindi un truismo basare un opera sul puro concetto anziché affidare alla chiave simbolica la dilatazione dei significati. Cézanne sosteneva che ogni pennellata deve “contenere l’aria, la luce, l’oggetto, il piano, il carattere, il disegno, lo stile”. Ogni frammento di un opera deve soddisfare un numero infinito di condizioni , la sua peculiarità consiste nel contrarre in ciascun tratto un’infinità di relazioni. Il quadro è da vedere e non da definire, esso è un piccolo mondo che si apre a una dimensione  sconosciuta allo stesso autore, il senso precede l’esistenza e si riduce a quel minimo di materia necessaria per compiere il prodigio. .De nittis 500

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Contraddizioni della ragione.  0

È necessaria una distinzione tra i concetti dell’intelletto e concetti della ragione. Nel primo caso la base dell’esperienza sensibile è soggettiva e prescinde dalla conoscenza dell’oggetto. Nel secondo caso si tratta di una elaborazione astratta della ragione che presuppone quantomeno un tentativo di conoscenza dell’oggetto. La ragione è la facoltà che  ci consente di agire in vista di un fine.

Se rapportiamo queste considerazioni alla prassi di critica e filosofia dell’arte, constatiamo che il processo analitico dell’opera, non solo non è mai  riferito all’oggetto, pittura, scultura, disegno, ma solo un ipotetico significato che non chiarisce la finalità, vale a dire il senso, di ciò che è rappresentato.

Se l’osservatore esprime un giudizio basato sulla sensazione, quindi soggettivo, non è ovviamente tenuto a fornire una motivazione della sensazione provata.

Al contrario chi pratica  critica e filosofia dovrebbe dare un riscontro logico convincente alle proprie teorie ermeneutiche.

Mentre la sensazione è appagante in se, la lettura razionale dell’opera si scontra con le difficoltà di superare le contraddizioni che la ragione ha con sé stessa.

In breve, mentre la critica d’arte quando si limita ad illustrare i dati oggettivi relativi all’opera potrebbe essere utile all’osservatore, la filosofia, nella sua pretesa di definizioni di significati indimostrati e indimostrabili,è  si riduce a una narrazione quasi sempre senza esito logico.

Le idee sul significato sono rappresentazioni riferite a un oggetto, ma non possono mai avere un contenuto di conoscenza dell’oggetto stesso. Esse sono frutto di una intuizione secondo un principio puramente soggettivo di immaginazione e intelletto.

Allo stesso modo una idea estetica non può diventare conoscenza, perché essa è un’intuizione dell’immaginazione. Un’intuizione empirica può essere provata con un esempio che dia  un risvolto logico alla intuizione. Ora, poiché  riportare una rappresentazione della immaginazione è necessario far ricorso ai concetti, l’l’idea estetica si può definire una ipotiposi non esponibile. Il gusto estetico ha un fondamento soggettivo a priori. Di conseguenza la pretesa di valore universale è infondata.

Dunque la narrazione filosofica dell’arte manca dei presupposti necessari a giustificare l’attribuzione di significato alle opere che prende in esame.

David Hume nella sua discussione sulla regola del gusto (1752), osserva che, se è vero che la grandezza di un’opera dipende da un’opinione, è anche vero che alcune opinioni sono più fondate di altre. Fondate su cosa? Visto che l’arte non è soggetta a logica, ne esiste metodo certo per definire le opinioni sul gusto, problema di fronte al quale si sono arresi  Kant, Hegel e tutti i filosofi che hanno affrontato il tema.

I filosofi statunitensi hanno allargano il campo, fitta la confusione di Howard S. Becker che  emerge da “I mondi dell’arte”, nel quale Becker teorizza, sulla scia di Cohen e Dickie, la commistione delle diverse espressioni artistiche, presumendo che tutte abbiano diritto ad essere considerate arte. Per sostenere tale tesi apodittica cita inevitabilmente Duchamp e tutti i suoi nipotini fino ad arrivare al Brillo di Warhol.

Il problema è che Becker, come lui altri filosofi dell’arte, usa come megafono una cattedra universitaria. Ciò gli conferisce titolo per sostenere truismi e anacoluti. In questo modo, anziché istruire i giovani che seguono i suoi corsi, si limita a suggestionarli. I risultati sono visibili nella opere  di gran parte degli artisti contemporanei.

 

Immagine: Ugo Nespolo: Al Museonespolo_ugo-new_york_met-500

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