Archives for : settembre 2021

Monetizzazione la bellezza.  0

Nel corso dei secoli si è andato accumulando in scritti, disegni, pittura, ciò che abitualmente viene definita cultura. Nonostante la gran mole di libri e di opere, al presente si è  accentuata la tendenza alla semplificazione. Non solo il linguaggio quotidiano, cosa che sarebbe accettabile,  anche la narrativa, la scrittura in generale fino alla massima semplificazione dei linguaggi dei network. Quale sia l’incidenza di questo processo linguistico sulla società in generale è riscontrabile nell’uso sempre più diffuso di stereotipi ripetuti continuamente.

 

La letteratura usa espressioni rozze, involute, con riferimenti sessuali non sempre necessari. Proviamo a immaginare cosa succederebbe se fosse applicata la boutade di   Oscar Wilde: “Chi chiama zappa una zappa dovrebbe essere costretto ad usarla”.

L’arte partecipa al processo di semplificazione, in molti casi lo anticipa. Le opere di Malevic e altri suprematisti russi ne sono un esempio. Alla nascita delle avanguardie, con le prime apparizioni dell’’arte astratta, molti artisti motivarono le ragioni delle loro scelte. Kandinskij, Mondrain, Malevic. In particolare Kandinsky seppe sviluppare una interessante teoria per la propria scelta tematica, che fu ulteriormente approfondita dal nipote, il filosofo hegeliano Alexandre Kojève.

Col tempo e l’accumularsi di opere degli epigoni, le spiegazioni non apparvero più necessarie, si dette per scontata la scelta dell’arte astratta. Per supplire alla mancanza di senso delle opere critica e filosofia attuarono una sovrapposizione verbale. In molti casi si ebbero esiti contradditori. Si leggono ampi saggi critici relativi a opere delle quali è arduo scorgere il nesso con il sostantivo”arte”.  In occasione dei mondiali di calcio in Corea, al calciatore coreano che con la sua bravura fece vincere la squadra, furono colorate le piante dei piedi per trarne impronte. Fotografate e riprese con calchi, furono vendute come opera d’arte a caro prezzo. Andarono  a ruba.

Questo non è un caso limite di confusione e paradossi della cultura contemporanea che celebra come capolavori i nani da giardino di Jeff Koons.

Come scritto in precedenti interventi, le cosiddette avanguardie storiche compirono una azione di rottura, forse consapevoli  di non riuscire ad uguagliare gli artisti del passato. La loro azione aveva quasi sempre come riferimento il rifiuto della cultura classica, motivato con argomenti speciosi, Intanto ammettevano implicitamente la differenza tra qualità e forme d’arte. La loro avrebbe dovuto essere arte di massa, quasi le masse potessero disporre dei milioni di euro che vale  una qualsiasi opera  prodotta dai maestri delle avanguardie.

Quando Marinetti dichiara “La guerra è l’igiene del mondo!”  cita Polibio, il quale si riferiva all’ascesa e declino degli Stati, individuando, secondo una visione stoica della storia, nella diffusione del benessere generalizzato, nel venir meno del “metus hostilis”, della paura del nemico, l’origine della decadenza dei popoli.

La conoscenza umana può avanzare solo cautamente, un passo dopo l’altro. La realtà noumenica ci sfugge. La storico francese Henri-Irénée Marrou in un suo saggio racconta un aneddoto. “Mi trovavo sulla sommità di una roccia, posto in alto sulla riva di un lago alpino, seguivo i tentativi di un pescatore: scorgevo brillanti nell’acqua cristallina le belle trote, che egli agognava dalla riva, muoversi lontano dalla sua canna troppo corta:” Marrou trae una conclusione: “Una cosa del genere accade spesso: i mezzi limitati di cui disponiamo non ci permettono di raggiungere ciò a cui miriamo”. L’arte il cui sviluppo sta tra conoscenza e intuizione, ha bisogno per esprimersi di riflessione. L’artista dovrebbe “vedere” le trote senza l’ansia di catturarle ma rallegrare con la loro elegante argentee bellezza quante più persone possibili. Oggi purtroppo   l’artista si comporta come colui che ha fretta di catturare le trote per portarle al mercato e ricavarne denaro.

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Preistoria dell’estetica. Il Sublime.  0

Il tema del “sublime” fu teorizzato per primo dal filosofo Longino (213 273 d.c.) il suo trattato, insieme alla poetica di Aristotele fu tra le più importanti opere di estetica dell’antichità.

Il sublime è agli antipodi di tutto ciò che è mediocre, banale, laido, è espressione della suprema poesia della sua forma più incisiva sia nella pittura che nella letteratura.

Umberto Eco, nel suo romanzo più noto, “Il nome della rosa”, costruì una narrazione intorno alla fobia di un vecchio monaco cieco che odiava la poetica di Aristotele perchè poteva indurre al sorriso.

La storia dell’arte contiene il riferimento agli artisti che hanno tentato, immaginato, di esprimere il sublime. Tentativi raramente riusciti.

Dare una definizione del sublime presenta non poche difficoltà, rappresentarlo è impresa riservata a pochi grandi geni della poesia e dell’arte.

Vale per il sublime ciò che Agostino d’Ippona diceva del tempo;  quando penso al tempo so perfettamente cos’è, quando mi trovo a doverlo spiegare ho difficoltà.

Le avanguardie hanno cancellato non solo il sublime, ma anche il bello, con speciose argomentazioni.

Kant, in “Critica del giudizio”, sostiene che il giudizio sul bello è sempre soggettivo. Non sarebbe corretto affermare: questo oggetto è bello. Ma più corretto dire: questo oggetto mi piace. Significa abolire il canone di riferimento, ridurre tutto al  gusto soggettivo. Si finisce quindi per lasciare spazio ad ogni forma di devianza estetica, come le avanguardie hanno dimostrato.

Baumgarten (1743) coniò il neologismo “estetica” (sensibile) e tentò di creare una filosofia del bello, chiaramente divenne il principale bersaglio delle avanguardie.

Esiste un inscindibile legame tra attività conoscitiva e attività estetica che rischia di essere annullato da eccessi di  soggettività. Non pochi filosofi dell’arte,specie di matrice statunitense,hanno avvallato le scelte anti-estetiche, delle avanguardie. Per tentare di dare un senso alle loro argomentazioni hanno dovuto, non solo ripudiare duemila anni di storia dell’arte, ma anche i filosofi che hanno dato senso all’arte attraverso ermeneutiche con solide basi logiche e culturali.

Alla fine è subentrata una sorta di rassegnazione espressa nell’affermazione di Hegel: “ L’arte non vale più per noi come il modo più alto in cui la verità si da esistenza…”.

L’orientamento materialistico e consumistico contemporaneo ha confuso  e sovrapposto alla sensibilità spirituale il puro edonismo estetico. I risultati sono visibili nell’arte di oggi, anche perche,come sosteneva Shaftesbury: “ L’estetica ed etica sono una parte sistematica dell’arte,la chiave di tutta l’epistemologia artistica”.

Nietzsche, che non amava Kant,lo definì spregiativamente:“il cinese di Konigsberg”. Contro la sua teoria etica inventò lo slogan: “Riduzione della morale a estetica”!!!”.

Nel libro delle leggi degli ebrei vi è un comandamento”Tu non ti farai alcuna immagine o figura di ciò che è in cielo, o in terra, o sotto terra…”. Considerata la massiccia presenza ebraica nel mondo delle avanguardie artistiche del ‘900, il furore contro la rappresentazione della natura era inevitabile.

Caspar David Friedrixh Monaco in riva al mare 1809-1810

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Alla ricerca dell’egemonia perduta.  0

Nel 1990 sulla rivista Tiger’s Eys, Barnet Newman pubblicò lo scritto “The sublime is now”. Una sorta di manifesto dell’arte astratta nel quale emergono aspetti della cultura statunitense che in Europa non credo siano mai stati sufficientemente analizzati e approfonditi.

Quarant’anni prima, 1950/51, lo stesso artista presentò un’opera di pittura astratta alla quale diede il titolo “Vir Heroicus Sublimis”. L’opera fu accolta con entusiasmo dalla critica. Si trattava di un  olio su tela di  m. 2,42 X m.5,42,  di colore uniforme, rosso/arancione attraversato da piccole fenditure di colore alle quali  Newman, forse ironicamente, diede il nome di zip.

Sia lo scritto The sublime is now che l’opera Vir Heroicus Sublimis tennero campo a lungo nella cultura visiva statunitense. Come sempre avviene furono elaborate diverse letture, nonostante la dichiarazione di Newman: l’opera non rappresenta nulla.

Il suo “manifesto” conteneva un durissimo attacco alla cultura europea. “ …Noi ci siamo sbarazzati dal peso morto della memoria, dell’associazione, della nostalgia, della leggenda, del mito, o di qualunque altra cosa vogliono significare le invenzioni della pittura europea occidentale….”.

Barnet Mewman aveva frequentata la facoltà di filosofia. Si servì della sua conoscenza per disseminare nel testo citazioni a partire da Longino, il primo filosofo che si occupò del sublime. Poi Platone, Aristotele, Kant, Hegel. In particolare dal suo scritto emerge la conoscenza del libro: “Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee si sublime e bello”  pubblicato da Edmund Burke nel 1757.

Il contenuto aggressivo del testo che Newman scrisse contro la cultura europea, si scontra con il paradosso che tutti i filosofi che egli cita appartengono alla cultura europea.

A mio parere, lo scritto di Newman, con la roboante esaltazione della sua opera, ha motivazioni di carattere psicologico e forti  venature nazionalistiche la cui interpretazione potrebbe essere tema psicanalisi. Dallo scritto infatti appare evidente un enorme complesso d’inferiorità nei confronti della cultura europea che afferma di voler rifiutare.

Già in passato ho affrontato il tema di come sia stato possibile che, anche alla luce della enorme arroganza che contraddistingue Newman, come lui buona parte dei protagonisti del mondo dell’arte statunitense, gli intellettuali e artisti europei hanno supinamente accettata una egemonia  non certo basata sulla superiorità culturale.

Ho ripreso oggi questo tema alla luce dei recenti tentativi di revanche degli Stati Uniti, che, pare, nutrano la speranza di mantenere una egemonia. Temo che il tentativo sia destinato a fallire. I tempi sono mutati. La credibilità morale degli USA è crollata dopo la serie di guerre immotivate. Gli stessi intellettuali statunitensi hanno preso le distanze da un potere che inutilmente tenta di dare credibilità a se stesso. Da tempo i libri di Noam Chomsky raccontano di arroganze e misfatti del potere statunitense. Di recente John J. Mearsheimer ha pubblicato “La grande illusione”, nel quale descrive il fallimento degli ultimi presidenti USA  nella loro pretesa di imporre la Weltanschauung americana con i carri armati.20210914_132211[1]

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La ragione non basta se manca la volontà.  0

Nel 1797 sotto il regno di Carlo IV re di Spagna,  Francisco José de Goya Y Lucientes, realizzò la serie:  Caprichos.

Il Caprichos 43, meglio noto con il titolo: “Il sonno della ragione genera mostri”, ha indotto a varie interpretazioni. Nel periodo in cui venne realizzata l’opera erano passati 8 anni dalla presa della Bastiglia e l’inizio della rivoluzione francese.

J.J. Rousseau,filosofo illuminista, autore de “Il contratto sociale” e “Emilio”, opere che affrontano il tema della libertà, distinse tra chi nega la libertà, chi si batte per conquistarla, questione intorno a cui si è dipanata la storia umana. Che parte ha la ragione in questo confronto?

Presumere che la libertà possa essere  concessa dal potere è una illusione. La storia dimostra che, nel perenne confronto tra esseri umani c’è chi soccombe e perde la libertà. Tutte le rivoluzioni, le teorie, non hanno eliminato questa realtà. Coloro che conquistato il potere,spesso negano la libertà ad altri uomini. Millenni di filosofia e religione non solo non hanno eliminato i conflitti sociali,ne hanno creati altri.  Oggi, oltre alle guerre, mai cessate, vi sono conflitti tra generi. Le donne reclamano più potere e rispetto dei loro diritti. Questo conflitto che taglia in due la società, maschi contro femmine, non esisteva al tempo di Goya.

Alla luce dell’esperienza, dopo rivoluzioni e guerre è ancora pensabile che la ragione, dormiente o meno, sia capace di governare il mondo? Il Capriccio 43 appare ottimistico quando presume che la desta ragione abbia come fine il bene comune.

Nel 1511 Erasmo da Rotterdam pubblicò il saggio: “Elogio della Follia”. Il grande umanista olandese,il solo che seppe confrontarsi con Martin Lutero sul piano logico e dottrinale, aveva un concetto diverso da Goya della ragione umana.

Per la creazione della sua opera pare che Goya traesse ispirazione dalla lettura dell’Ars Poetica di Orazio e da alcuni scritti di Marco Vitruvio. Gli studiosi che si sono dedicati all’ermeneutica dell’opera, gli hanno attribuito significati diversi. Chi vide una lettura positiva all’illuminismo, altri sostennero il contrario. Mettere una donna sull’altare e adorarla come dea della ragione, non era certo un segno di condotta razionale. Soprattutto, era contro la ragione scatenare il terrore, e massacrare migliaia di persone. Lo slogan che ispirò la rivoluzione francese : Libertè, Egalitè, Fraternitè, non è mai diventato realtà.

Dunque, la ragione  è  uno strumento neutro. I peggiori crimini commessi dagli uomini contro altri uomini sono sempre stati giustificati usando la “ragione”,a volte aggettivata come “dialettica”.

Adam Smith,docente di filosofia morale, in “La ricchezza delle nazioni”,scrisse:“Non è dalla benevolenza del macellaio,del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il pranzo,ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse”. Difficile conciliare la ragione con  egoismo che domina il mondo.

Dall’opera di Goya, siamo approdati  al macellaio di Adam Smith sul filo della ragione. Cartesio, Hume, Locke, Kant, Voltaire, ogni filosofo ha dato una lettura diversa della capacità raziocinante dell’uomo. La natura ha dotato gli esseri umani di intelligenza ma non di volontà sufficiente per contrastare aspetti meno nobili della propria natura. Anche quando la ragione non dorme, raramente è impegnata a far del bene agli altri, piuttosto, come i bottegai di Smith, è impegnata a curare i propri interessi, soddisfare i propri desideri.

Dopo l’ incisione del Caprichos 43, Goya non ha più affrontato il tema, in vecchiaia, come Voltaire e altri filosofi pare sia giunto alle stesse conclusioni di Kant: “Nessuno riuscirà mai a raddrizzare il legno storno dell’umanità”. La ragione non basta.

CAPRICCIOS 43 - 500

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Velazquez: pittura storia, narrazione  0

Brevi cenni sull’opera di Velazquez: Las Meninas. Capolavoro di realismo immaginifico.

L’osservatore può cadere nella tentazione ermeneutica di ravvisare nell’opera una teoria filosofica. Se tutto ciò che il pittore dipinge rende visibile e riconoscibile una rappresentazione del riflesso della realtà, si dovrà concludere che l’opera espone una visione complessiva del mondo come pura apparenza? Volendo giocare con le teorie, si potrebbe sostenere che l’opera è una rappresentazione che esige Res cogitans del tutto separata dalla Rex estensa. L’opera di Velasquez mostra come sostanzialmente identici il vedere e l’esser visto, ci sarebbe dunque più di Spinozza che di Cartesio. Il mondo come idea, secondo Cartesio e Locke, come pura rappresentazione del senso in Schopenhauer? Un anticipazione della Condition humaine di René Magritte? Tutto è espressione dell’io dell’artista? Magritte descrive effettivamente  la condizione umana secondo una precisa tradizione filosofica, per la quale non abbiamo accesso alle cose ma ci confrontiamo sempre soltanto con le nostre rappresentazioni delle cose, come se fossimo seduti in una stanza dietro una tela dipinta che fa da finestra. Velazquez, contrariamente a Magritte, non si occupa della presunta condizione umana,bensì dell’arte pittorica. Il dipinto rappresenta la realtà così com’è realmente, non è vero l’opposto, che la realtà sia mera rappresentazione o fenomeno. La filosofia dell’Io di Cartesio, nella quale tutto si riduce a fenomeno interno alla coscienza, non  salva i fenomeni. Velazquez è realista, rappresenta le cose, per descrivere le sue opere le parole sono superflue, serve invece cultura e tanta attenzione. E’ un fatto che la pittura realistica di quel livello  conduce a una soluzione sorprendentemente simile alla filosofia cartesiana dell’idea. Certo, mentre il realismo russo si avvicina vagamente alla sostanziale “verità” realistica, il realismo USA che deriva dalla Pop Art è pittura cartellonistica.

Nel libro “Le parole le cose” di Michel Foucault, pubblicato nel 1966,il filosofo tenta l’interpretazione, o meglio dà una propria interpretazione della opera di Velazquez: “Las Meninas” All’inizio del libro descrive in modo dettagliato l’opera del pittore madrileno, ritorna con un richiamo a pagina 77. L’esposizione dettagliata del quadro, sotto il titolo “Damigelle d’onore”, esamina con puntigliosa precisione la posizione del re nell’opera, e parla di “ritorno al linguaggio”. Tema altamente speculativo, segue la non meno profonda analitica della “finitudine”. L’analisi si avvale della raffinata dialettica nella quale Foucault è maestro, ma sembra cadere vittima dei propri paradossi. Cosa significa, nella elaborazione ermeneutica l’affermazione “ritorno del linguaggio”? Quando mai il linguaggio andò perduto così da renderne possibile il ritorno? Il lettore, intimidito dalla colta dissertazione del maestro, forse rinuncia a chiedersi in quale epoca all’intera umanità si è creato un buco nero nella storia del linguaggio. Tutta la cultura sembra essere messa in forse dalla semplice affermazione di Foucault che pare aver scoperto la base della ragione dell’intero occidente. Entrano nel giudizio Platone, Aristotele, gli stoici così come i grammatici antichi che stabilirono le basi del nostro comunicare, gli eroi omerici, Kant. Tutti costoro, e molti altri si sono pronunciati sui temi che Foucault sembra scoprire oltre 2000 anni dopo.

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