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Filosofia della felicità.  0

La “felicità” è uno dei temi affrontati dalla filosofia, uno dei tanti che non ha trovato una definizione, un senso, che possa essere condiviso.  L’arte evidenzia la difficoltà di esprimere un’ idea di felicità perché la raffigurazione è necessariamente legata al corpo umano con i suoi limiti. L’impossibilità di definire ed esprimere la felicità consiste nella frammentarietà temporale. Il “ carpe diem” di Orazio. Per Schopenhauer  la felicità è negativa. E’ l’idea già espressa da Erodoto: “ Non c’è mai stato al mondo uomo che non si sia augurato di non vedere l’indomani”. Vale anche per i grandi intellettuali l’affermazione: “Quot capita, tot sententiae” .  C’è chi, come Locke ,  lega la felicità al rispetto delle regole morali all’interno del circolo delle relazioni.L’amante che tradisce svilisce se stessa e offende l’amato. La più semplice definizione della felicità è “non aver bisogno di nulla se non di se stessi”. Il problema è che per raggiungere questo stadio di autonomia sarebbe necessario possedere una notevole quantità di stoicismo o di cinismo. Diogene arringava la folla gridando “Ehi, uomini!”, e , all’accorrere di molti, li respinge sprezzante “Uomini chiamai, non canaglie” . Epitteto considerava Diogene, insieme a Socrate, il suo modello di riferimento. Epicuro insegnava che il piacere è ridotto a ben piccola cosa, ma di questa piccola cosa finiamo per essere schiavi. Per crearsi  un alibi gli umani hanno inventato la parole “amore” che, quando si riferisce al rapporto tra i sessi,  è un altro modo di definire l’attrazione sessuale. E’ di pochi  l’incapacità di resistere alle pulsioni del corpo. In non poche donne vi è un aumento in misura morbosa dell’istinto sessuale che si configura come  “ninfomania”.  Gassendi  sostiene a chiare lettere che l’amore è connesso strutturalmente al piacere. E’ infatti le teorie di Platone sull’amore, il cosiddetto “amore platonico” , non hanno trovato e non trovano molto seguito. Non diversa sorte ebbero le teorie di Plotino secondo cui : “ Lo stato felice consiste esclusivamente nella capacità contemplativa”. Non è chiaro come e perché i filosofi costruiscono teorie che sembrano dimenticare che l’uomo è un animale generalmente incapace di tenere a bada i propri impulsi, se si escludono rarissime eccezioni di persone che hanno raggiunto il dominio di se stessi. Senza indulgere al pessimismo di Schopenhauer , non c’è dubbio che la felicità è per tutti gli umani molto più rara di quanto lo siano i momenti di sconforto e di dolore. Alla radice c’è sicuramente l’incapacità di auto dominio,  di indirizzare le proprie energie mentali verso obiettivi capaci di dare senso alla propria vita. Se è vero che l’arte non riesce a raffigurare la felicità, è altrettanto vero che le biografie degli artisti sono le narrazioni di incontinenza e squilibrio tali da spiegare perché la felicità non è compagna dell’arte.FELICITA -500

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Tra enfasi e denigrazione.  0

I libri di filosofia possono essere interpretati attraverso la metafora di cercatori di oro sulle rive dei fiumi i quali devono raccogliere una grande quantità di ghiaia e setacciarla per ottenere una pagliuzza di oro. Schopenhauer, ad esempio, è prolisso, i suoi ragionamenti assumono l’aspetto di opinioni non supportate da una logica sufficientemente neutrale. Quando la filosofia  affronta il tema dell’arte cade in una serie di contraddizioni, a cominciare dal fatto che riveste di parole opere che  dovrebbero avere il potere di comunicare autonomamente. Inoltre, quando Schopenhauer affronta il tema dell’arte è palesemente condizionato dalla passione per la cultura indiana. Egli usa  l’oggetto  artistico come pretesto per considerazioni estranee al reale mondo dell’arte, pone un enfasi eccessiva nell’attribuire all’opera d’arte la capacità di influenzare il pensiero, anche se si affretta a precisare che ciò vale solo per i grandi artisti. Le sue argomentazioni rientrano nella annosa diatriba sul valore e significato dell’arte,  di conseguenza cosa si deve intendere per grande arista, o artista di valore. Se fino all’inizio dell’800 vi era una certa convergenza  di critici e intellettuali nella condivisione circa la  natura dell’arte, a partire dalla fine dell’800 la questione si è fatta problematica. Lo sperticato elogio della bellezza che sarebbe espressa nelle opere a cui indulgono critica e filosofia dell’arte nell’epoca pre- avanguardie, suona condanna senza appello della quasi totalità dell’arte contemporanea. Gli artisti contemporanei rinunciano programmaticamente alla bellezza estetica, giustificano tale scelta con teorie spurie approntate dai filosofi dell’arte. In altri casi la declinazione formale dell’arte si affida  a procedimenti concettuali, quasi che l’essenza dell’arte consista nel sostituirsi alla filosofia. La rinuncia alla contemplazione implica il porsi nei confronti del paesaggio e della natura in generale in atteggiamento critico, tale atteggiamento finisce per riverberarsi anche nella osservazione dell’essere umano  del quale vengono messi in rilievo gli aspetti deteriori o attraverso happening, specie sul cotè femminile, ma anche nella pittura. Basti osservare le opere di Francis Bacon e  Lucian Freud. Quella che un tempo era la ricerca del colore attraverso il quale si esprimeva il significato, oggi non ha più corso, la materialità dell’arte consiste anche nell’approssimazione dei dettagli. Per esempio prima del 1875 vi era una certa resistenza ad usare il viola dei glicini che appare solo con gli impressionisti.          Kate-Moss-2002.jpg500

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