Prima o poi dovremo fare i conti con il dilagante conformismo che assume sembianze di progressismo. Nella filosofia buddista è oggetto di riflessione il vuoto che spesso contraddistingue l’esistenza, con l’invito ad averne consapevolezza. La nostra civiltà convive con il vuoto interiore. Cosa s’intende per “vuoto”, in sanscrito Sunyata. L’aggettivo vuoto, sunya, può significare privo di sè. Sunya deriva dalla radice Sui, gonfiato e letteralmente significa relativo a chi è gonfio. Quindi questa contraddizione ben si adatta alla espressione corrente : pallone gonfiato. Sinonimo di gonfio ma vuoto. Infatti la comune radice Sui, in greco Ky, pare adombrare il fatto che quello che è gonfio e apparente è vuoto dentro. Sebbene il vuoto sia di solito raffigurato nell’arte buddista con un cerchio, non lo si deve concepire come un semplice niente, uno spazio bianco. Per inciso va notato una delle ironie della storia. Proprio il buddismo il più anticommerciale di tutti i sistemi religiosi e filosofici, ha elaborato uno simbolo matematico importantissimo per il commercio e più in generale per l’intero sviluppo della scienza moderna. Senza l’invenzione dello Zero infatti non sarebbe possibile il sistema che permette il funzionamento dei computer e di tutto il meccanismo che regola le transazioni commerciali sull’intero pianeta. Il piccolo cerchio dello Zero, già noto agli arabi verso il 950 d.C. così come shife, vuoto, giunse in Europa verso il 1150 e fu chiamato cifra, in latino. Il vuoto è ciò che esattamente si situa tra l’affermare e il negare. Ecco dunque l’aggancio sociologico con una società agnostica che nega ciò che non conosce, identificando la verità con la scienza mentre in realtà la verità non può che avere una valenza mistica, insondabile ma reale. La dottrina del vuoto dagli artisti buddisti viene spesso espressa con immagini, cosa che tentano di fare oggi alcuni artisti che si pongono il problema dell’effimero. Coghi, Di Maggio, Sehgal e pochi altri, sembrano aver sufficiente sensibilità per capire il problema che assilla la società contemporanea. Gli artisti che hanno la consapevolezza della precarietà di ogni cosa, riescono meglio ad esprimere il tentativo di accettare la realtà nelle sue infinite effimere sfaccettature.
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