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Materializzare i pensieri.  0

In  “ Storia della follia nell’età classica” Foucault cita l’affermazione di una paziente: “ Chi legge i libri non è cosi pazzo come chi li scrive”. Forse questo vale in modo particolare per molte  pubblicazioni che hanno per tema l’arte, essendo, per definizione, attività che non può essere codificata, si presta maggiormente alla elaborazione di teorie prive di fondamento logico, ovvero estranee ad ogni  ermeneutica- ontologica. Le diffuse generalizzazioni sulla natura dell’arte, sembrano esimere dall’affrontare il problema. Il “filosofo” statunitense Artur C. Danto , ha pubblicato  “La destituzione filosofica dell’arte”,e  “ Dopo la fine dell’Arte. Il confine della storia”. Due titoli altisonanti per un contenuto che con un eufemismo si può  definire povero. Da un lato vi è una sopravalutazione di ciò che è l’arte, dall’altro l’eccessiva semplificazione della produzione artistica che, essendo estremamente  diversificata, difficilmente può essere contenuta in una unica definizione.

Da oltre un secolo l’arte è  campo di battaglie per le più disparate controversie, una sorta di guerra le cui vittime sono i significati. Dal cabaret Voltaire, alla folta schiera dei nipotini di Duchamp, è tutto un infittirsi di teorie e dispute al capezzale dell’arte in agonia. Voler forzare l’opera dell’artista conferendole a priori espressione concettuali, significa fare il verso alla filosofia. Si tende a  ignorare la differenza sostanziale, tra il linguaggio filosofico, che  può sopravvivere a truismi e anacoluti per la sua  fluidità, la capacità di analizzare se stesso, di contraddirsi e  correggersi, nella perenne evoluzione propria del pensiero, della mente attiva come un work in progress. L’artista plastico deve invece necessariamente, anche quando voglia esprimere un concetto,  tenere conto che realizza un oggetto reale, da forma a cose che nascono dai suoi pensieri, egli per così dire, materializza i concetti,  solidifica i pensieri. Mentre la filosofia può avvalersi dell’antico adagio “Orazio, dopo ratio”, l’artista non può modificare l’opera compiuta. Tanto è vero che deve affidarsi ai  funamboli della parole per giustificare ciò che in se stesso non sempre ha senso. E’ vero che il filosofo non fa che intellettualizzare, tradurre il pensiero effimero in una teoria più o meno plausibile, ma è sottratto alla forma solidificata dell’opera che resta immutata nel tempo. Anche se c’è chi sostiene che  l’arte deve affidarsi al contingente, questo non significa che possa sottrarsi alla necessità di darsi un significato, destinato spesso  alla obsolescenza dovuta anche alla propria  staticità.

Carlo Michelstaedter scrive : “ Ogni cosa si distrugge avvenendo”. Ciò che nasce rivoluzionario scivola in una deriva reazionaria. Lo dimostra ciò che accade oggi nelle Accademie, costrette a una sorta di coazione all’originalità spesso presente solo nelle intenzioni. Unica possibilità dell’arte di sottrarsi a un rapido dissolvimento, è mantenere la coerenza con se stessa. L’arte significa fare, nulla più. Chi pretende di comprimere in generalizzazioni totalizzanti il semplice fare, ansioso di  chiudere l’arte in una camicia di Nesso composta da definizioni  precostituite, finisce per ridurre la molteplicità della creazione artistica. Trascurare la forma e affidarsi al concetto o alla tecnica, significa avvelenare la radice stessa dell’arte.

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