Post by Category : Conversazioni sull’Arte

La verità come ipotesi.  0

Quando apparve sulla terra, circa  500mila anni fa, l’essere umano era l’animale più indifeso, non aveva la velocità del ghepardo per fuggire alle insidie, non aveva gli artigli e la forza del leone per difendersi e cacciare, non possedeva la prerogativa dell’aquila di sollevarsi al di sopra dei pericoli, avrebbe dovuto soccombere, invece conquistò il mondo e piegò la natura ai propri bisogni utilizzando intelligenza e immaginazione.

Con l’intelligenza creò  condizioni e strumenti utili alla propria esistenza, la possibilità di difendersi, e costruì il proprio habitat

Con l’immaginazione creò  Dio e l’arte. Aprì uno spiraglio di speranza, per giustificare la propria esistenza con un fine superiore, andare oltre i limiti dell’essere animale,  imparare a controllare i propri impulsi con la volontà che Schopenhauer pone alla base della natura vegetale e umana. Questo proposito non ebbe esito.

Fin da subito l’essere umano rinuncio alla verità perchè in conflitto che ciò che egli è. Con la filosofia elaborò una serie di teorie funzionali che non approdarono a nulla. La verità restò allo stadio di ipotesi, non riuscì mai a superare le contraddizioni e i  limiti che consistono in ciò che di negativo è nella natura umana.

In “L’origine dell’opera d’arte” Martin Heidegger  pone una domanda “Che cos’è la verità?  La  risposta che egli formula, non è convincente, si perde nella astratto. Egli afferma:  l’arte è  il mettersi in mostra della verità.

Pascal Engel e Richard Rorty,  sulle orme di Pilato, scrissero un libro che  titolarono:   “A cosa serve la verità?” Domanda pertinente in una società nella quale tutto è funzionale a uno scopo pratico.

In realtà, nella impossibilità, o incapacità,  di modificare la nostra natura, abbiamo elaborato complesse teorie per giustificarla, arrivando a una tale esasperato antropocentrismo da immaginare Dio a nostra  immagine e somiglianza,senza prima aver mai chiarito il mistero della possibile esistenza di un essere supremo, forma pura di perfezione ed intelligenza. .

I graffiti nelle grotte di Altamira, Lascaux, Chauvet, sono la testimonianza che  l’essere umano fin dai primordi è alla ricerca del modo di rappresentare il suo mondo reale e immaginato.

Le pitture rupestri sono immaginazione, evocazione, racconto, magia. Con la modernità l’evoluzione dell’arte sembra avere voluto prendere le distanze dalla natura. In un percorso in cui  abbiamo , per così dire, alienato noi stessi. .

L’arte finisce per alimentare il nostro antropocentrismo, ci perdiamo nella esaltazione di noi stessi e tutto ciò che gravita intorno a noi. Una tautologia concettuale, imitazione, ripetizione.

Kandinsky  scrive cose bellissime sulla propria arte astratta, la giustifica sostenendo che è pura creazione perché, egli sostiene, non esiste nulla di simile in natura. La tesi, apodittica, trova smentita nelle infinite forme che la natura conferisce alle proprie creazioni, che noi solo in parte conosciamo.  Tutto ciò che la natura crea ha una ragione d’essere, non è così per le nostre realizzazioni.

La civiltà, nelle forme in cui è andata configurandosi, ha portato alla pauperizzazione dell’essere umano. Nonostante molte importanti conquiste, abbiamo fallito la sfida più importante: creare un essere umano migliore.

 

Immagine: Le parole insincere sfioriscono, non arrivano al cuore.

LA VERITA

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Coscienza è libertà.  0

 

 

La filosofia si è spesso interessata alla questione della coscienza, ovviamente in forme estremamente complesse ed articolate che non hanno una ricaduta diretta nella sostanzialità interpretativa della normale quotidianità.

In ogni ambito dell’attività umana la coscienza dovrebbe suggerirci comportamenti  e decisioni giuste. Ciò che condiziona le nostre azioni è la realtà oggettiva/soggettiva nella quale si dipana la nostra esistenza. Presa di coscienza è sinonimo di consapevolezza.

Tuttavia, nonostante le complesse interpretazioni dei filosofi, resta difficile stabilire in cosa consiste la coscienza, soprattutto comprendere la ragione delle notevoli differenze tra individui.

Nel  microcosmo dell’arte, il problema si pone in termini estetici – antropologici avendo presenti, per orientarci, richiami e riferimenti a Kant, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche a cui potremmo  aggiungere le riflessioni di M. Kähler, A. Ritsch.  Infine la monografia di H.G. Stoker. Vasto ambito che andrebbe ulteriormente ampliato  per mettere in luce le molteplicità di fenomeni di coscienza che caratterizzano criticamente i diversi modi possibili di considerare la fenomenologia dell’arte. L’ampia bibliografia, se pur incompleta, aiuta a inquadrare il tema.

Per quanto concerne la storia del concetto di coscienza, la monografia di Stoker si differenza dall’interpretazione esistenziale già nell’impostazione, quindi nei risultati, nonostante parecchie concordanze, Stocker non valuta sufficientemente fin dall’inizio le condizioni ermeneutiche  per una descrizione della coscienza sussistente oggettivamente ed effettivamente; con ciò va di pari passo all’annullamento dei confini fra fenomenologia e teologia con danno di ambedue

Per quanto riguarda i fondamenti antropologici della ricerca mutuati dalla soggettività della scelta,  la monografia di Stoker rappresenta un considerevole progresso rispetto alle interpretazioni precedenti, più per la trattazione complessiva dei fenomeni della coscienza e delle loro ramificazioni, che per l’analisi delle radici ontologiche del fenomeno.

Se dalle narrazioni concettuali della filosofia, ritorniamo alla concretezza  di ciò che l’artista intende comunicare, ci troviamo di fronte a narcisistiche velleità. Effettivamente la  comunicazione extramondana  trascura il bagaglio epistemologico che dovrebbe essere la base per realizzare  la visione soggettiva che l’artista intende rappresentare.

I barattoli di Manzoni, l’orinatoio di Duchamp, la rana crocifissa di Kippenberger, il crocifisso immerso nell’urina di Andres Serrano, sono tutte opere che sollevano perplessità, ci pongono di fronte alla domanda: quale tipo di coscienza muove queste azioni?  Qual’è l’intento di quei  sedicenti artisti? Lascio a chi legge l’onere della risposta.

Certo è problematico il confronto tra il discorso aureo sulla questione di coscienza, che include, ovviamente aspetti etici, e fatti artistici che riflettono un vuoto interiore,  uno squallore esistenziale che sgomenta. E  tuttavia tutto viene accettato in nome della  cosiddetta libertà di espressione.

Mettere in vendita la coscienza  soggettiva per un attimo di notorietà, vellicare gli aspetti peggiori della natura umana, sono forme di prostituzione socio-culturale che dovrebbero far riflettere.

Se è vero che la coscienza e un’entità soggettiva, è altrettanto vero che l’opera d’arte dovrebbe trasmettere  valori con valenze universali agendo all’interno di una realtà antropologica e civile.  Le opere citate, a cui se ne potrebbero aggiungere molte altre,  sono espressioni di una realtà depravata. Realizzare simili opere  non significa compiere un atto di libertà, come da più parti si sostiene. La libertà non può essere solo espressione di sterile cinismo. Le opere che abbiamo elencato non hanno alcun valore sul piano dell’etimologia artistica, tanto meno nella simbologia libertaria.

Kounellis

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Jannis Kounellis. Scultura vivente. Nudo di giovane donna incinta. 1998

 

 

 

 

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Ludwig Wittgenstein: va bene così.  0

Con l’ultimo colpo di pennello il quadro è ultimato, oppure il pittore si ferma a ciò che Wittgenstein definisce: “ va bene così” Qual è il limite, la completezza della realtà ontologica dell’arte? Cosa è rimasto del rapporto tra arte e vita?

La filosofia antica, in parte ripresa da Heidegger, esamina un percorso dell’esistenza che si conclude con la morte. Il  destino dell’essere è un  insieme di frammenti temporali che chiamiamo vita, ne accettiamo tutte le inevitabili incompletezze.

Per l’estetica la completezza si realizza nella perfezione, mai raggiunta e non raggiungibile.

La vita si prolunga nella memoria di chi resta e nella testimonianza della poesia.  “Passi echeggiano nella memoria in quel corridoio che non percorremmo, verso quella porta che non aprimmo mai.”  (T.S. Eliot  Quattro quartetti) “Dove urlano le onde e il vento/ dove vola la procellaria e nuota il delfino”.

La pretesa di definire la vita in quanto significato escatologico è destinata a fallire. Platone ci mette di fronte ai nostri limiti con la parabola della caverna.

Talete anticipa con una metafora naturale la narrazione dell’eterno ritorno: “ Entriamo e non entriamo nello stesso fiume”. Il fluire inarrestabile del tempo.

Platone rileva che l’arte crea una doppia illusione, forse necessaria,  paradigma dell’esistenza  essa stessa illusione.

L’arte contemporanea rifiuta il bello, la storia, la mimesi, ma soprattutto rifiuta la poesia, sembra quasi che il bello, la poesia siano disturbanti quando entrano in esistenze vendute alla funzionalità senza scopo, che non sanno, non possono andare  oltre il presente.

La pedagogia ha rinunciato da tempo alla norma dei greci: Kalos kagathos”, Bello e buono. L’espressione Kalokagathia  si riferisce alla perfezione fisica e morale della scultura greca del V secolo a.C. L’umanità non ha più visto la perfezione delle sculture di Mirone, Policleto, Fidia, Prassitele, Skopas, Lisippo. I frammenti delle opere di questi artisti sono custoditi nei musei a ricordo di un Arcadia che ai primordi della civiltà ci illuse sulla possibilità che davvero il bello potesse salvare il mondo.

Forse l’umanità non vuole era salvata, non più di quanto una scrofa possa preferire il velluto al fango.

Per quanto si possa far ricorso a teorie spurie non possiamo nasconderci che il mondo così com’è lo abbiamo costruito noi. La nostra storia, la nostra arte, il nostro sistema economico produttivo, i nostri abiti, le nostre abitudini, tutto è frutto della nostra attività, delle nostre scelte, delle nostre azioni. Possiamo esserne orgogliosi? Ai contemporanei l’ardua sentenza.

Quello che è certo, non è stata la filosofia ad orientare le nostre scelte. L’auspicio di Kant: “ Il cielo stellato sopra di noi, la legge morale dentro di noi”,  non è mai stato un riferimento, una linea guida, il cielo lo abbiamo inquinato, la legge morale l’abbiamo cancellata.

 

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Arte a perdere. Tra alienazione e tecnologia.  0

Nel XVIII secolo Kierkegaard ha espressamente esplicitamente afferrato e acutamente penetrato il problema dell’esistenza come problema esistentivo. La problematica esistenziale gli è però così estranea che egli quanto alla prospettiva ontologica resta completamente sotto il dominio di Hegel e della filosofia antica vista attraverso quest’ultimo. Perciò dal punto di vista filosofico c’è molto più da imparare dai suoi scritti di edificazione che da quelli teorici e inclusi nel concetto di angoscia. Quando pensiamo all’angoscia rappresentata nella pittura automaticamente  viene in mente l’urlo di Munch, questa figura sul ponte, sotto il profilo pittorico non è poi così significativa, e tuttavia è entrata nell’immaginario collettivo come espressione di angoscia.

Molto più angoscianti sono le pitture di Francis Bacon, esseri sanguinanti,  quarti di bue appesi a ganci, visi deformati e urlanti.

Lucien  Freud dipinge l’essere umano di fronte alla decadenza fisica,  rappresenta corpi in preda al disfacimento, persone anziani con  sguardi voti, rassegnati, con espressioni di assoluta tristezza.

Nella pittura di Baltus troviamo invece  immagini apparentemente meno inquietanti, adolescenti ritratte in pose lascive, scomposte. Rappresentazioni di un pedofilo la cui inquietudine è sublimata dalla pittura,una forma  più sottile ma non meno profonda d’angoscia.

Grant Wood uno dei maggiori esponenti del gotico americano realizza figure statiche con  espressioni perse nel vuoto, in ambienti freddi con edifici che si richiamano allo stile Gotico del quale sembrano fare la parodia.

Edward Hopper crea immagini di una modernità che sembra aver perso il senso dell’esistenza, coppie assenti a se stesse, incapaci di comunicare, sedute in stanze di albergo anonime.

Getty Image va oltre, presenta l’essere umano con ferite sanguinanti che vengono coperte con fasce. Difficile immaginare il contenuto di comunicazione  di simili figure che sono allo stesso tempo banali e inquietanti.

Herman Nitch  mutila e crocifigge gli animali, presenta immagini di una vagina nel periodo mestruale, fa del sangue oggetto delle sue opere con eccessi di brutalità visiva che si stenta a credere possano indurre al collezionismo.

Questa breve e incompleta rassegna di opere che sono sintomo chiaro di una società triste, confusa, cinica e immensamente triste, persa nell’angosciante vuoto esistenziale avendo perso il senso della propria vita.

Da sempre l’essere umano ha avuto difficoltà nel trovare un equilibrio tra sé stesso e la realtà nella quale si trova a vivere.

Hegel affrontò il tema dell’alienazione in un tempo in cui il problema cominciava a profilarsi, erano i primordi dell’era industriale, quando ebbe inizio la cesura tra essere umano e natura. E’ come se la natura avesse preso atto della nostra indifferenza per ecosistema e, per così dire, ci avesse abbandonati al nostro destino. L’estraneità alla natura ha reso l’essere umano alienato, come iscrive Hegel, dall’estraneità alla natura alla estraneità a se stesso, in un galleggiamento privo di pensiero, senza spiritualità, immerso nel materialismo, nel consumo, assorbito dalle proprie   passioni ludiche, nei propri vizi e nei  quali si dibatte, spesso quasi con compiacenza.

L’arte non anticipa i tempi, li segue zoppicando, quindi rappresenta senza filtro critico le immagini della “CommediaGotico americano - 500 umana”  che Honoré de Balzac  descrisse così efficacemente  nel suo celebre romanzo.

 

Grant Wood. “Gotico americano” olio su tela 1930

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Visione e pensiero.  0

È Vediamo ciò che pensiamo e attraverso ciò che conosciamo. Lo sguardo come interrogazione, come un passo verso la conoscenza. La costituzione fondamentale della visione si manifesta in una particolare tendenza al “vedere”. Di una persona particolarmente acuta si dice che “sa vedere le cose”. Definiamo la propensione a vedere con il termine: curiosità. E’ la curiosità il principale stimolo alla conoscenza. Noi interpretiamo il fenomeno della curiosità come un fondamento ontologico- esistenziale.

Già nella antichità e nella filosofia greca fu studiata la base del piacere di vedere. Il libro che occupa il primo posto nella raccolta dei trattati aristotelici di ontologia inizia con il fermare l’attenzione sulla visione. Lo sguardo, il vedere, osservare, stimola la riflessione ed è alla origine della scienza come lo è dell’arte. Non è pensabile un pittore privo di vista.

L’interpretazione greca della genesi esistenziale della scienza non è casuale. In essa si fa esplicito ciò che era già delineato nella filosofia di Parmenide. L’essere è ciò che si manifesta alla visione intuitiva pura.

Hans Belting affronta il tema della storia visiva mettendo a confronto diversi aspetti della visione. Nel “I Canoni dello sguardo” (Bollati Boringhieri 2010) usa l’emblema della finestra per sottolineare come mentre nella civiltà occidentale la visione è fondata sul primato dell’occhio e sulla sovranità del soggetto osservatore, la civiltà araba privilegia la luce ed è fedele al grafismo non iconico.

Agostino si interroga sulla concupiscenza dello sguardo, come il vedere influisca profondamente sui nostri pensieri. Oggi che viviamo nella civiltà delleimmagini ci troviamo ad dover affrontare la volgarità delle immagini che incessantemente vengono trasmesse da cinema e tv  e si riflettono nei  comportamenti quotidiani delle masse.

I sistemi complessi che sovraintendono la produzione di immagini hanno fagocitato anche l’arte. Gli artisti hanno abbassato gli occhi sugli strumenti tecnici rinunciando alla visione immaginifica che guida la mano creatrice. Si è attuato una sorta di incapsulamento tecnologico che ci assorbe e ci distrae, soprattutto diventa un “bisogno” di evasioni,  ci rende più psicolabili. Siamo abituati a vedere in ogni dove le persone concentrate sul proprio telefono compulsare sulla tastiera per trasmettere il nulla. La  visione del mondo si è ridotta per molti allo spazio di cm7 X11 dello schermo del telefono.

 

Immagine: Immagine pittorica rielaborata da Piergiorgio Firinu . “Stupore e sgomento”.

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Il rimando del segno.  0

I segni sono in primo luogo mezzi, il cui specifico carattere di mezzo consiste nell’indicare. Sono segni di questo genere le pietre di confine, le tracce, le insegne, segnali stradali, segnali di servizi, di pericolo e molti altri.

Le opere d’arte è un segno che pone una necessità ermeneutica non codificata. Ciò lascia spazio a libere interpretazioni. Una figura richiede la conoscenza del rappresentato. Può trattarsi di un personaggio storico, un paesaggio, una persona, una situazione. In tutti i casi, se non ci si limita all’aspetto estetico, è necessaria la conoscenza del rappresentato e del contesto nel quale l’artista ha collocato il soggetto.

Se si tratta di un’opera astratta la lettura si affida esclusivamente alla percezione  emozionale. Come scriveva Erwin  Panofsky: il disegno si appella alla ragione, il colore all’emozione.

Stabilire il valore di un’opera, per valore non si intende ovviamente il costo monetario ma la rilevanza testimoniale, a prescindere dall’abusato riferimento tra forma e contenuto. Abusato perché in realtà la coincidenza non è mai sufficientemente approfondita ma più spesso ipotizzata.

Il segno rimanda ad altro da sè, in se stesso non ha significato ma valore di rimando. Un segno che non indica nulla è pleonastico.

Un’opera priva di significato può essere percepita nel suo aspetto ludico, piace perchè piace.  Tautologia purtroppo diffusa, con la quale si crea una convenzione equivoca. Accettazione e comprensione non sono sinonimi. Il segno non è in relazione alla cosa che indica, ma è semplicemente un rimando la cui efficacia è in rapporto a chi osserva ed è grado di decifrare il contenuto.

Lo stesso segno può essere usato per indicare cose diverse. Così l’opera d’arte può essere letta in modi diversi e gli si può attribuire diversi significati. Di questa possibilità hanno abusato la avanguardie storiche con forzature semantiche in contrasto con l’ontologia dell’opera.

Il segno non richiede forme e materiali specifiche. Vi sono segni assolutamente soggettivi. Il nodo al fazzoletto ha significato per chi lo fa. Le briciole di pane di Pollicino acquistavano il significato di traccia solo per chi era alla ricerca del bambino. All’ampiezza dei significati possibili di un segno, fa riscontro la strettezza della comprensibilità e dell’uso. In molti casi, abbiamo visto che il segno è accessibile solo a chi lo ha fatto.

Molta arte contemporanea travalica l’uso originario del segno e attua una speculazione teorica oggettivamente decettiva. Secondo Heidegger : “ il segno è un utilizzabile ontico che, in quanto è questo determinato mezzo, funge nel contempo da qualcosa che indica la struttura ontologica dell’utilizzabilità e della totalità dei rimandi”.  E’ qui sta il  fondamento della peculiare utilizzazione del segno nel mondo dell’arte.

segni misteriosi - 500

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Teoria critica oggi.  0

La teoria critica oggi in voga trascura il concetto di valore e fa riferimento a immanenze di storicità mondana. Non è il caso qui di inoltrarci in una approfondita disamina. Basti accennare alle svariate aporie insite nella superficialità critica e la mancanza di chiarezza ontologica. Anche l’artificiosità problematica che si è voluta creare intorno  agli idoli verbali costituiti dalla critica e filosofia dell’arte, i quali hanno la pretesa di tracciare la storia dell’arte attraverso discutibili ermeneutiche. L’impressione è che le numerose teorie sull’arte nascano da un equivoco. Nella versione data da Platone e Aristotele il concetto di equivoco tende a divaricarsi in molteplici significati, ma sostanzialmente si tratta di essere guidati positivamente da un significato fondamentale. Il problema dell’arte è invece avvolto nella più totale confusione tra teorie spurie e apodismi irrazionali. A partire dalla domanda: come si stabilisce il valore di un’opera d’arte?  Una interpretazione potrebbe essere il valore come significato della forma della realtà formale del segno  che irradia una molteplicità di stimoli socio-culturali. Ma la mutevolezza del giudizio finisce per essere collegata inestricabilmente alla soggettività psichica, in contrasto con la pretesa di stabilire valori certi. Un giudizio estetico può prescindere dal significato?  Se il “bello” è giustificazione  a se stesso, anche in questo caso significa disperdere nella soggettività acritica la valutazione dell’opera. Come si vede sono molte le aporie nella quali finiscono per arenarsi  critica e filosofia dell’arte. Per mantenere la necessaria dialettica, la facoltà del giudizio dovrebbe innanzitutto essere razionale. Forse per spiegare talune forzature polemiche dovremmo alzare lo sguardo sulle vere motivazioni. Come scrive Peter Sloterdijk: “ ….Il denaro è la terza persona della Trinità..” (Sfere I° Volume. Editore Cortina pag.170) Secondo Kant: “…Il Giudizio è la facoltà di stabilire la corrispondenza alla regola”. Ora il pensiero corrente avviato dalle avanguardie ha stabilito un’assioma: l’arte (ma non solo l’arte) è esentata dal rispetto delle regole, anzi è considerata virtù creativa violare ogni regola. Ne consegue che anche il linguaggio della critica e filosofia dell’arte è esentato dal rispetto delle regole, e quindi diventa la quintessenza della narrazione decettiva , perché comunica null’altro che opinioni nel palese tentativo di creare valori.           poster74

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Il gusto e la forma.  0

Nell’arte si giudica dalla forma dell’oggetto attinente all’estetica, o al suo contenuto? Non c’è dubbio che rispondere a questa domanda vorrebbe dire chiarire il senso della filosofia dell’arte. Peccato che la risposta sia impossibile se non tramite apodismi. Infatti, mentre la quantità e anche la natura di un oggetto in quanto materia può essere accertata,  altra cosa è stabilire la qualità con una approssimazione che possa essere generalizzata.

La scelta diventa soggettiva e si affida al sostantivo maschile “gusto”, cioè qualcosa di estremamente opinabile.

Spinoza chiarisce questa propensione nello scolio della preposizione 39 dell’ Etica: “..noi non desideriamo niente per il fatto che lo giudichiamo buono , ma viceversa diciamo buono ciò che desideriamo…”  .

Già l’estetica medioevale aveva tentato distinzioni in questo campo. Scoto Eriugena, anticipa la brama collezionistica quando descrive un elegante vaso d’oro, ornato di pietre preziose, guardato dal saggio e da un uomo vizioso. Il saggio ammira l’oggetto per la forma. L’altro guarda ed è preso da desiderio di possederlo. Questa contrapposizione ha una parte considerevole nell’estetica medievale. In Tommaso d’Acquino è già formulata nel senso che è un godimento dell’armonia delle forme, di piacere estetico.

Ciò implica, come abbiamo detto, il gusto. Tema sul quale Galvano della Volpe formula una teoria che tracima  nella socialità dell’arte. Operazione tutto sommato tautologica.

Diciamo che la filosofia dell’arte, specie di matrice statunitense, ha contribuito non poco a far nascere il gusto Kitsh e il gusto Kamp. Quest’ultimo è soprattutto preferito dalle comunità omosessuali. Andy Warhol era una sorta di guru della numerosa comunità omosessuale newyorkese che gravitava intono alla Factory.

Quello che Hermann Broch chiama uomo Kitsh  si fonda sulla menzogna, come egli afferma,  su una rappresentazione per lo più poco consapevole, falsa, illusoria  del rapporto con la realtà sociale. Egli scrive: l’uomo contemporaneo ama il Kitsh perché è Kitsh.

Peter Sloterdijk nel primo volume di Sfere (Editore Cortina 2014) pagine 496-97 scrive a proposito della musica Pop e la descrive psicoacustica, o come la definisce Tom-Götter   divinità del suono, ritorno alle caverne. E’ possibile sentirla  soprattutto nelle Love Parades e nei Gay Pride.

Ecco dunque che l’incultura della contemporaneità ha la propria arte, la propria musica e la propria letteratura, il tutto proposto e riproposto dai media, in particolare tv e cinema.   Kamp -500

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Le regole della abbazia di Thelème.  0

E’ un luogo comune, come tutti i luoghi comuni contiene una buona dose di verità, la diffusa convinzione che i veri artisti abbiamo la capacità di anticipare il futuro. Sfogliando la storia della letteratura non mancano gli esempi, qui vorremmo soffermarci sul capolavoro di Francois Rabelais “Gargantua e Pantagruele”. Dopo la guerra contro Picrocole, Gargantua premia coloro che hanno combattuto dalla sua parte. Fra Giovanni rifiuta tutti i doni e chiede di poter erigere un abbazia che chiamerà “Thelème”. Dal greco, desiderio, volontà: a significare che era un luogo libero. Infatti sul frontone dell’abbazia venne scolpita la  frase “ Fa quello che vuoi” Questa avrebbe dovuto essere la prima regola di quel luogo. Se non che, scritte in poesia e in prosa, seguono pagine in cui è indicato chi può essere ospitato, chi no, cosa si può fare a cosa non si può fare. L’originalità consiste nel fatto che le regole sono esattamente opposte a quelle in vigore all’epoca nei conventi, tuttavia sempre regole sono. Ma, ecco l’intuizione geniale di Rabelais, le regole risultano in fondo non necessarie giacchè prevale lo spirito gregario. Scrive infatti il nostro: “E proprio per tale libertà, assunsero una lodevole emulazione di fare tutti quello che vedevano fare a uno di loro. Se qualcuno diceva:”Beviamo”, tutti bevevano; se diceva “Giochiamo”, tutti giocavano; …” E così di seguito. Se qualcuno pensa ai giovani di oggi?  “Honni soi qui male y pense”.

 

Abazia di Thelème- 500

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I paradossi della società contemporanea.  0

 

La lettura dell’ultimo lavoro di Paul Virilio “L’incidente del futuro” suscita reazioni contrastanti.  Un filosofo si occupa della deriva socio-culturale a cui siamo immersi da tempo, mette l’accento sugli apodismi alla base della incongruenza sociale. La tesi che sviluppa non è però coerente. Il progresso non elimina ciò che resta di umano in noi, com’egli sostiene. Se così fosse  non ci troveremmo sommersi da crescente entropia sociale con la quale dobbiamo fare i conti. Il progresso è usato a pretesto e giustificazione di comportamenti ignobili e insensati, tipicamente umani. “Progresso” e “Libertà” sono i due miti del nostro tempo. Gli esempi citati da Virilio dimostrano  che non sempre i due termini sono compatibili. Non perché il cattivo di turno, scienziato o politico, disponga di macchine infernali di coercizione. Il “Il Grande Fratello” è opera di mediocri personaggi della comunicazione e spettacolo. L’ansia di prostituirsi moralmente è così diffusa da non avere bisogno di essere incoraggiata. Le ventimila ragazze che si presentano per un posto da Velina, vedono se stesse come evolute, moderne, aperte a tutto ciò che è nuovo. Dunque alla locomotiva del progresso non serve il ricorso a violenza e/o sotterfugi per procurarsi il carburante. Una folla davanti alla caldaia ansiosa di buttarsi nelle fiamme della “libertà” e progresso”. Forse, avrebbero difficoltà e definire i due sostantivi, ma questo non fa differenza.

 

 

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