Post by Category : Conversazioni sull’Arte

Il rimando del segno.  0

I segni sono in primo luogo mezzi, il cui specifico carattere di mezzo consiste nell’indicare. Sono segni di questo genere le pietre di confine, le tracce, le insegne, segnali stradali, segnali di servizi, di pericolo e molti altri.

Le opere d’arte è un segno che pone una necessità ermeneutica non codificata. Ciò lascia spazio a libere interpretazioni. Una figura richiede la conoscenza del rappresentato. Può trattarsi di un personaggio storico, un paesaggio, una persona, una situazione. In tutti i casi, se non ci si limita all’aspetto estetico, è necessaria la conoscenza del rappresentato e del contesto nel quale l’artista ha collocato il soggetto.

Se si tratta di un’opera astratta la lettura si affida esclusivamente alla percezione  emozionale. Come scriveva Erwin  Panofsky: il disegno si appella alla ragione, il colore all’emozione.

Stabilire il valore di un’opera, per valore non si intende ovviamente il costo monetario ma la rilevanza testimoniale, a prescindere dall’abusato riferimento tra forma e contenuto. Abusato perché in realtà la coincidenza non è mai sufficientemente approfondita ma più spesso ipotizzata.

Il segno rimanda ad altro da sè, in se stesso non ha significato ma valore di rimando. Un segno che non indica nulla è pleonastico.

Un’opera priva di significato può essere percepita nel suo aspetto ludico, piace perchè piace.  Tautologia purtroppo diffusa, con la quale si crea una convenzione equivoca. Accettazione e comprensione non sono sinonimi. Il segno non è in relazione alla cosa che indica, ma è semplicemente un rimando la cui efficacia è in rapporto a chi osserva ed è grado di decifrare il contenuto.

Lo stesso segno può essere usato per indicare cose diverse. Così l’opera d’arte può essere letta in modi diversi e gli si può attribuire diversi significati. Di questa possibilità hanno abusato la avanguardie storiche con forzature semantiche in contrasto con l’ontologia dell’opera.

Il segno non richiede forme e materiali specifiche. Vi sono segni assolutamente soggettivi. Il nodo al fazzoletto ha significato per chi lo fa. Le briciole di pane di Pollicino acquistavano il significato di traccia solo per chi era alla ricerca del bambino. All’ampiezza dei significati possibili di un segno, fa riscontro la strettezza della comprensibilità e dell’uso. In molti casi, abbiamo visto che il segno è accessibile solo a chi lo ha fatto.

Molta arte contemporanea travalica l’uso originario del segno e attua una speculazione teorica oggettivamente decettiva. Secondo Heidegger : “ il segno è un utilizzabile ontico che, in quanto è questo determinato mezzo, funge nel contempo da qualcosa che indica la struttura ontologica dell’utilizzabilità e della totalità dei rimandi”.  E’ qui sta il  fondamento della peculiare utilizzazione del segno nel mondo dell’arte.

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Teoria critica oggi.  0

La teoria critica oggi in voga trascura il concetto di valore e fa riferimento a immanenze di storicità mondana. Non è il caso qui di inoltrarci in una approfondita disamina. Basti accennare alle svariate aporie insite nella superficialità critica e la mancanza di chiarezza ontologica. Anche l’artificiosità problematica che si è voluta creare intorno  agli idoli verbali costituiti dalla critica e filosofia dell’arte, i quali hanno la pretesa di tracciare la storia dell’arte attraverso discutibili ermeneutiche. L’impressione è che le numerose teorie sull’arte nascano da un equivoco. Nella versione data da Platone e Aristotele il concetto di equivoco tende a divaricarsi in molteplici significati, ma sostanzialmente si tratta di essere guidati positivamente da un significato fondamentale. Il problema dell’arte è invece avvolto nella più totale confusione tra teorie spurie e apodismi irrazionali. A partire dalla domanda: come si stabilisce il valore di un’opera d’arte?  Una interpretazione potrebbe essere il valore come significato della forma della realtà formale del segno  che irradia una molteplicità di stimoli socio-culturali. Ma la mutevolezza del giudizio finisce per essere collegata inestricabilmente alla soggettività psichica, in contrasto con la pretesa di stabilire valori certi. Un giudizio estetico può prescindere dal significato?  Se il “bello” è giustificazione  a se stesso, anche in questo caso significa disperdere nella soggettività acritica la valutazione dell’opera. Come si vede sono molte le aporie nella quali finiscono per arenarsi  critica e filosofia dell’arte. Per mantenere la necessaria dialettica, la facoltà del giudizio dovrebbe innanzitutto essere razionale. Forse per spiegare talune forzature polemiche dovremmo alzare lo sguardo sulle vere motivazioni. Come scrive Peter Sloterdijk: “ ….Il denaro è la terza persona della Trinità..” (Sfere I° Volume. Editore Cortina pag.170) Secondo Kant: “…Il Giudizio è la facoltà di stabilire la corrispondenza alla regola”. Ora il pensiero corrente avviato dalle avanguardie ha stabilito un’assioma: l’arte (ma non solo l’arte) è esentata dal rispetto delle regole, anzi è considerata virtù creativa violare ogni regola. Ne consegue che anche il linguaggio della critica e filosofia dell’arte è esentato dal rispetto delle regole, e quindi diventa la quintessenza della narrazione decettiva , perché comunica null’altro che opinioni nel palese tentativo di creare valori.           poster74

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Il gusto e la forma.  0

Nell’arte si giudica dalla forma dell’oggetto attinente all’estetica, o al suo contenuto? Non c’è dubbio che rispondere a questa domanda vorrebbe dire chiarire il senso della filosofia dell’arte. Peccato che la risposta sia impossibile se non tramite apodismi. Infatti, mentre la quantità e anche la natura di un oggetto in quanto materia può essere accertata,  altra cosa è stabilire la qualità con una approssimazione che possa essere generalizzata.

La scelta diventa soggettiva e si affida al sostantivo maschile “gusto”, cioè qualcosa di estremamente opinabile.

Spinoza chiarisce questa propensione nello scolio della preposizione 39 dell’ Etica: “..noi non desideriamo niente per il fatto che lo giudichiamo buono , ma viceversa diciamo buono ciò che desideriamo…”  .

Già l’estetica medioevale aveva tentato distinzioni in questo campo. Scoto Eriugena, anticipa la brama collezionistica quando descrive un elegante vaso d’oro, ornato di pietre preziose, guardato dal saggio e da un uomo vizioso. Il saggio ammira l’oggetto per la forma. L’altro guarda ed è preso da desiderio di possederlo. Questa contrapposizione ha una parte considerevole nell’estetica medievale. In Tommaso d’Acquino è già formulata nel senso che è un godimento dell’armonia delle forme, di piacere estetico.

Ciò implica, come abbiamo detto, il gusto. Tema sul quale Galvano della Volpe formula una teoria che tracima  nella socialità dell’arte. Operazione tutto sommato tautologica.

Diciamo che la filosofia dell’arte, specie di matrice statunitense, ha contribuito non poco a far nascere il gusto Kitsh e il gusto Kamp. Quest’ultimo è soprattutto preferito dalle comunità omosessuali. Andy Warhol era una sorta di guru della numerosa comunità omosessuale newyorkese che gravitava intono alla Factory.

Quello che Hermann Broch chiama uomo Kitsh  si fonda sulla menzogna, come egli afferma,  su una rappresentazione per lo più poco consapevole, falsa, illusoria  del rapporto con la realtà sociale. Egli scrive: l’uomo contemporaneo ama il Kitsh perché è Kitsh.

Peter Sloterdijk nel primo volume di Sfere (Editore Cortina 2014) pagine 496-97 scrive a proposito della musica Pop e la descrive psicoacustica, o come la definisce Tom-Götter   divinità del suono, ritorno alle caverne. E’ possibile sentirla  soprattutto nelle Love Parades e nei Gay Pride.

Ecco dunque che l’incultura della contemporaneità ha la propria arte, la propria musica e la propria letteratura, il tutto proposto e riproposto dai media, in particolare tv e cinema.   Kamp -500

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Le regole della abbazia di Thelème.  0

E’ un luogo comune, come tutti i luoghi comuni contiene una buona dose di verità, la diffusa convinzione che i veri artisti abbiamo la capacità di anticipare il futuro. Sfogliando la storia della letteratura non mancano gli esempi, qui vorremmo soffermarci sul capolavoro di Francois Rabelais “Gargantua e Pantagruele”. Dopo la guerra contro Picrocole, Gargantua premia coloro che hanno combattuto dalla sua parte. Fra Giovanni rifiuta tutti i doni e chiede di poter erigere un abbazia che chiamerà “Thelème”. Dal greco, desiderio, volontà: a significare che era un luogo libero. Infatti sul frontone dell’abbazia venne scolpita la  frase “ Fa quello che vuoi” Questa avrebbe dovuto essere la prima regola di quel luogo. Se non che, scritte in poesia e in prosa, seguono pagine in cui è indicato chi può essere ospitato, chi no, cosa si può fare a cosa non si può fare. L’originalità consiste nel fatto che le regole sono esattamente opposte a quelle in vigore all’epoca nei conventi, tuttavia sempre regole sono. Ma, ecco l’intuizione geniale di Rabelais, le regole risultano in fondo non necessarie giacchè prevale lo spirito gregario. Scrive infatti il nostro: “E proprio per tale libertà, assunsero una lodevole emulazione di fare tutti quello che vedevano fare a uno di loro. Se qualcuno diceva:”Beviamo”, tutti bevevano; se diceva “Giochiamo”, tutti giocavano; …” E così di seguito. Se qualcuno pensa ai giovani di oggi?  “Honni soi qui male y pense”.

 

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I paradossi della società contemporanea.  0

 

La lettura dell’ultimo lavoro di Paul Virilio “L’incidente del futuro” suscita reazioni contrastanti.  Un filosofo si occupa della deriva socio-culturale a cui siamo immersi da tempo, mette l’accento sugli apodismi alla base della incongruenza sociale. La tesi che sviluppa non è però coerente. Il progresso non elimina ciò che resta di umano in noi, com’egli sostiene. Se così fosse  non ci troveremmo sommersi da crescente entropia sociale con la quale dobbiamo fare i conti. Il progresso è usato a pretesto e giustificazione di comportamenti ignobili e insensati, tipicamente umani. “Progresso” e “Libertà” sono i due miti del nostro tempo. Gli esempi citati da Virilio dimostrano  che non sempre i due termini sono compatibili. Non perché il cattivo di turno, scienziato o politico, disponga di macchine infernali di coercizione. Il “Il Grande Fratello” è opera di mediocri personaggi della comunicazione e spettacolo. L’ansia di prostituirsi moralmente è così diffusa da non avere bisogno di essere incoraggiata. Le ventimila ragazze che si presentano per un posto da Velina, vedono se stesse come evolute, moderne, aperte a tutto ciò che è nuovo. Dunque alla locomotiva del progresso non serve il ricorso a violenza e/o sotterfugi per procurarsi il carburante. Una folla davanti alla caldaia ansiosa di buttarsi nelle fiamme della “libertà” e progresso”. Forse, avrebbero difficoltà e definire i due sostantivi, ma questo non fa differenza.

 

 

Angelo-Morbelli-Venduta-1897-Arte-Svelata

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Realtà e percezione.  0

Vi sono realtà che percepiamo ma non vediamo. Il freddo, il caldo. L’ombra la vediamo ma è percepibile al tatto,  non è nulla solo assenza di luce. Altre realtà sono un nostro difetto di visione. Immaginiamo un daltonico, un astigmatico, osservano un oggetto  e lo vedono difettoso, un colore diverso, una immagine sfocata. Vediamo cioè un difetto nell’oggetto osservato mentre in realtà il difetto è di chi osserva. Questo tipo di difficoltà può essere individuato e risolto con l’ausilio di un supporto tecnico. Ma cosa accade quando un difetto di valutazione, di comprensione, sono dovute all’intelletto, quando cioè l’intelletto non riesce a comprendere uno scritto, un pensiero, una fenomeno?  Intanto è estremamente difficile stabile con sufficiente approssimazione il reale livello di comprensione. Conoscere non equivale a capire. Questa spiega l’apparente paradosso di persone colte ma ottuse.

Nella grande ricchezza della lingua, chi scrive si trova impegnato nella ricerca della parola giusta, che risponda esattamente al concetto che vuole esprimere. Secondo Roland Barthes  la ricerca della parola giusta  costituisce l’essenza della letteratura.  Altri tempi.

Platone si servi dell’espressione idea nel senso di qualcosa che non è ricavato dai sensi , ma sorpassa anche i concetti dell’intelletto. Le idee sono per lui gli archetipi delle cose stesse, non semplici chiavi per esperienze possibili. Per Aristotele nell’esperienza non s’incontra mai nulla che vi sia adeguato.

Se noi partiamo da queste premesse per esaminare la narrazione condotta dalla filosofia dell’arte, ci rendiamo conto che, nella maggior parte dei testi, non si manifesta la capacità di penetrare il significato vero del fenomeno arte nella espressione materiale in cui si presenta. Se, ad esempio, com’è stato stabilito, il colore esprime pura emozione, il voler dare un significato  razionale a un opera astratta, basata cioè esclusivamente sul colore, è operazione inattuabile se non facendo ricorso ad apodismi. A meno di supporre che il filoso più che un tentativo ermeneutico, si affidi a   un esercizio di narrazione sofistica.

Zenone d’Elea, sottile dialettico, fu molto biasimato da Platone  come petulante sofista, perché egli per dar prova della sua abilità dialettica cercava di una stessa proposizione dimostrare, tramite speciosi argomenti, prima la sua fondatezza e poi la sua inconsistenza logica. Quando un filosofo scrive testi per tentare di argomentare in ordine ai fenomeni artistici, distinguendo qualità, significato e valore di singole opere, e poi approdare all’affermazione: tutto è arte. Va da se che, se tutto è arte sono pleonastiche le distinzioni di merito e di valore, tutto è affidato al gusto e alla scelta soggettiva, le teorie sull’arte si disperdono in immaginazione decettiva.

Calzolari 500

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Arte come narrazione storica e del mito.  0

L’arte può essere ridotta a sperimentazione, provocazione, estemporaneità? Quando nel 1937  Duchamp  mette insieme una sorta di happening durante il quale finge di decapitarsi, facendo il verso all’opera di  Caravaggio “La testa di San Giovanni Battista offerta a Salomè”. Cosa esprime veramente?

Quando Piero Manzoni nel 1961, assumendo di realizzare un’opera concettuale crea i suoi barattoli come opera d’arte definendola “Merda d’Artista”. Cosa esprime? Cosa rappresenta? Sono provocazioni o semplici intermezzi, una sorta di involontaria comicità surreale? Storici e filosofi dell’arte fanno ricorso a  spurie argomentazioni, senza però saper entrare nel vivo del percorso creativo che pretende di creare una nuova  ontologia dell’arte. In realtà l’ambizioso proposito si perde in un pensiero autoreferenziale. Forse il problema è più semplice di quanto si suppone. Una società bolsa, affetta da consumo, priva di ideali e di etica, non può che produrre artisti di quella risma e, inevitabilmente, celebrarli in funzione del riscontro  mercantile. Tra le ragioni della creatività vi è anche la sublimazione. L’arte ha sempre interpretato la storia, il mito, forse anche quando non erano del tutto compresi. Stalin definì gli scrittori “ingegneri dell’anima”. Forse l’arte  può essere definita  balsamo dello spirito. Dovremmo riflettere sul fatto che nelle società nelle quali vige la repressione, nascono artisti di grande valore. Pensiamo alla Russia al tempo degli Zar nella quale operarono artisti come Fedor Dostoevskj, Leone Toltoj, Maksim Gor’kij, Anton Cechov, Nicolaj Gogol, Ivan Turgenev,  molti altri  scrittori di altissimo livello. Quale può essere la spiegazione? Forse viviamo in un tempo nel quale la società è femminilizzata, siamo nell’era dell’apparenza, della superficialità dell’edonismo. Come già aveva scritto Hegel, l’arte, nella sua essenzialità. è estranea alla civiltà moderna. Gli artisti non posseggono più la sensibilità e gli strumenti culturali per dare alla loro arte un’impronta storica di ampio respiro.

L’ interpretazione del tempo che viviamo  è l’esatto opposto dell’illustrazione, per certi versi involontaria, della modernità che si attua con la Pop Art. Si tratta di dar forma a cultura e storia.

La morte di Pablo Neruda  a Santiago del Cile il 23 settembre 1973 diede vita a polemiche infinite. Renato Guttuso creò un disegno e incisione che non furono mai esposti nei quali rappresentò la morte del poeta. Anche questa è la funzione dell’arte, la denuncia del dolore. Come David con la Morte di Marat.  Oggi al più vi è l’utilizzo del mito in funzione di ideologie faziose, di corto respiro. Come la reinterpretazione in chiave femminista del mito di Leda e il cigno realizzata dall’artista americana Dana Schulz. I funerali dell’arte continuano da quasi un secolo in un tripudio di ottusa mondanità.      CaravaggioSalomeLondon

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Arte estemporanea.  0

Qualunque sia il contenuto della nostra conoscenza, e in comunque modo si riferisca all’opera che stiamo osservando, il nostro giudizio è frutto di una sedimentazione di saperi ed esperienze. La preposizione: “a nessuna cosa conviene un predicato che la contraddica”, si chiama principio di non contraddizione; è un criterio generale che appartiene alla logica. L’equivoco nasce dalla modalità di narrazione con pretesa ermeneutica  del tutto apodittica. Il giudizio critico viola il principio di non contraddizione ogni qual volta presume di identificare nell’opera significati che non sono riscontrabili. I giudizi sono spesso accolti per abitudine e si combinano con le inclinazioni. Da questo punto di vista appare molto più distruttiva la critica dello psicologo Daniel Wegner che argomenta: “ Le ragioni che adduciamo per giustificare le nostre scelte  sono mere confabulazioni, congeniate a posteriori , e per ciò casualmente irrilevanti per la produzione dei nostri giudizi”.  Dovrebbe valere l’affermazione di Kant secondo cui: “ La verità di un giudizio è l’accordo della  conoscenza con il suo oggetto”. Ma come può valere la conoscenza di un opera che non ha un ontologia definita? Per esempio da dove si possono trarre gli argomenti per attribuire significato a un opera astratta che palesemente non rappresenta nulla, nel senso che è priva di fondamento logico ed ha solo un impatto emozionale indotto dalla  disposizione del colore senza disegno? In questi casi entrano in gioco le diverse sensibilità. La storia dell’arte non è solo una teoria di artisti e opere, ma entra nel vivo della storia e della cultura dell’epoca in cui fu creata. Per questa ragione, in molti casi,  razionalità e logica non sono necessarie, l’opera è la traccia di un evento, l’immagine di un personaggio, uno scorcio di natura. Nulla di tutto questo è ravvisabile nella maggior parte dell’arte dell’ultimo secolo. In misura ancor maggiore nella cosiddetta arte astratta. L’espediente della critica è spesso di attribuire all’artista un intento preciso, ricamando immaginifici dettagli sulla personalità del soggetto creatore. Come quando si attribuisce a Jackson Pollock la capacità di indirizzare il dripping alla realizzazione di una precisa forma. Trattasi, a mio avviso, di decettività fantasiosa, priva di riscontro oggettivo. In realtà l’esperienza artistica è possibile solo mediante una rappresentazione  per realizzare la quale è necessaria  la percezione filtrata da gnoseologia e sensibilità che diventano forma.      Scimia

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Unicorno. Mitologia dell’ impossibilità.  0

L’idealismo materiale, ossia l’idealismo che si riferisce alla materia del conoscere, si contrappone all’idealismo formale. L’idealismo problematico di Cartesio dichiara indubitabile solo un’affermazione empirica cioè:  io sono. Quello dogmatico di Berkeley  considera lo spazio con tutte le cose a cui esso aderisce quali condizioni inseparabili, come qualcosa in se stesso impossibile e dichiara perciò anche le cose nello spazio semplici immaginazione. Ora se noi consideriamo la rappresentazione, come  concetto materializzato di una cosa rappresentata, dovremmo dedurne che un concetto resta vuoto se non confermato dall’esperienza. Nella logica immaginaria dell’arte tutto è diverso. Un artista può dipingere, dar forma a un unicorno. L’unicorno esiste,è davanti ai miei occhi,  ma non nella realtà. L’arte  quindi realizza un ossimoro, crea una realtà che non esiste. L’artista può scegliere tra collocare l’unicorno nello sfondo di una realtà conosciuta, oppure, coerentemente, creare una realtà immaginaria nella quale collocarlo. Altro ossimoro. Tuttavia,  mentre l’unicorno è figura mitologica nota, la realtà immaginaria creata dall’artista nella quale colloca l’unicorno, è interamente frutto della sua fantasia creativa, quindi  distinta dal reale. Quando affermo che l’arte contemporanea è frammentata, mi riferisco alla difficoltà dell’artista di creare una realtà nella quale collocare l’unicorno, dare quindi compiutezza e continuità la narrazione. Questo limite non impedisce di usare un’immagine mitologica, ma, come detto,  rende problematico saper dare all’unicorno una giusta collocazione. Resta la realtà dell’unicorno, per restare alla metafora,  esso è collocato però nella scenografia di una realtà nota. E’ quanto ha fatto il surrealismo:  immaginare  un significato senza la capacità di realizzarlo in una forma compiuta. Una narrazione interrotta che ha aperto la strada all’uso di concetti formali i quali, ancora più che nel  surrealismo, restano sospesi nel nulla, privi di una definizione semantica. La rinuncia alla mimesi e alla narrazione storica,  ha condotto l’arte al fallimento formale e contenutistico. Così come  il delirio modifica tutto ciò che comunque fa parte della nostra esperienza pregressa, mentre oggetti e persone vengono semplicemente deformati, modificate. L’arte con la pretesa di affidarsi alla concettualità, rischia di realizzare qualcosa di simile. Creare una sospensione tra il possibile e immaginario, dare una forma del tutto insufficiente ad esplicare un contenuto autonomo che giustifichi se stesso in una definizione ontologica non spuria. Non c’è dubbio che le teorizzazioni ormai  hanno poco a che vedere con l’attuale sistema dell’arte, vista la situazione di un mondo artistico che in pratica funziona esclusivamente in funzione del mercato. Tuttavia sarebbe utile che gli artisti prestassero maggiore attenzione alle motivazioni del loro operare. Forse sarebbero indotti a tentare di dare un’impronta, un significato,  alle opere che producono in modo da evitare di galleggiare nel vuoto di velleitarismi,  come purtroppo avviene con eccessiva frequenza.Il castello sui pirenei- 500

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Donne, arte, potere.  0

Con il libro “Il paradosso di Antigone” ho tentato di descrivere il fondamento decettivo delle teorie femministe  che tendono a rappresentare la donna  vittima di una cultura patriarcale. La storia dell’occidente, dove maggiori sono le recriminazioni femminili, dimostra  che non c’è mai stata vera sottomissione della donna. Ovviamente ci sono, e ci sono state  questione naturali e sociali che in qualche misura determinano i ruoli con vantaggi e svantaggi  che vanno sicuramente valutati e in molti casi superati da entrambe le parti.

Resta il fatto che le disuguaglianze non sono prevalentemente di genere, ma di classe sociale.  Il problema è ben descritto da Karl Max  nel Primo libro del Capitale.

La storia registra il diffuso potere femminile, non solo nella versione descritta da J.J. Bachofen, ma nel tessuto vivo della società.

Ci vorrebbero più libri anche solo per elencare donne regine, nobili, cortigiane che hanno  avuto potere, in qualche caso assoluto. Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, Caterina di Russia e molte altre. Da notare che nessuna delle donne che hanno avuto il potere ha inciso sulla posizione sociale delle donne. Rispondere a questa domanda ci aiuterebbe a capire molte cose, ma non è questa la sede.

Quanto scritto appare evidente anche nel campo dell’arte. Nella impossibilità di ricostruire per intero gli eventi, ci limitiamo  a brevi cenni prendendo in considerazione un periodo particolarmente interessante della storia di Francia, tra il 1643 – 1742.

Era l’epoca in cui l’assolutismo regio sperperava enormi somme di denaro in feste e lussi di ogni genere, nell’acquisto di opere d’arte, creando grandi collezioni  poi finite nei musei, in particolare al Louvre. Ebbene anche in quel periodo la corte era dominata dalle donne nobili e cortigiane.

In particolare due donne si contendevano il predominio nel campo dell’arte. Yeanne f’Albert de Luynes, contessa di Verrua e Jeanne Antoinette, marchesa de Pompadour. La prima, dopo varie relazioni con uomini potenti realizzò una collezione di opere d’arte senza uguali,  all’epoca si diceva fosse superiore anche a quella del reggente, il Duca di Orleans. Alla fine della sua vita la contessa Verrua creò una specie di casa di tolleranza di alto bordo  che era chiamata Maison de volupté.

La marchesa de Pompadour era la favorita di Luigi XV. Nei ventun anni durante i quali fu maîtresse en titre du Roi dei France, Luigi XV dissipò 72 000 000 di livres per lei. Era il personaggio più potente in Francia, faceva e disfaceva ministri, disponeva di uffici pubblici, di onori e privilegi. Anche Pompadour creò una immensa collezione d’arte che alla sua morte venne gestita da Colbert e Charkes Le Brun.

Ovviamente questi sono solo due tra i moltissimi casi che la storia politica e la storia dell’arte registrano in ordine al potere femminile. La posizione sociale della donna non fu mai una conquista, un merito guadagnato in attività utile alla nazione. All’epoca i maschi si guadagnavano titoli nobiliari e privilegi sociali, sopratutto sui campi di battaglia per conquistare nuovi territori o per difendere la nazione. Ovviamente molti pagavano con la vita. Per le donne posizione sociale e privilegi erano sempre frutto di eredità, matrimoni o relazioni amorose.    Madame de Pompadour 500

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