Per Kant fanatico è colui che ha una fiducia sconsiderata per la ragione, tale propensione può tradursi nel rifiuto dei limiti della finitezza umana. Atteggiamento che si registra anche a proposito dell’intolleranza e della violenza che emergono dal dibattito critico contemporaneo sull’arte, in cui l’esame delle cause è oggetto di saggi supponenti e aggressivi.
Il tema è stato affrontato con dovizia di dettagli da Michael Fried in “ Art Criticism, in the Sixties” pubblicato nel 1967. In oltre mezzo secolo nulla è cambiato, semplicemente si è capovolto quello che veniva considerato conformismo, prima che deflagrassero le così dette avanguardie, le quali hanno prodotto il risultato di capovolgere semplicemente i riferimenti socio-culturali creando una nuova forma di conformismo.
Oggi conformismo significa accettare, in modo acritico, tutto ciò che, a torto o ragione, viene considerato provocatorio, e in controtendenza, in breve,“avanguardia”. Si dovrebbe tener conto del fatto che, come scrive Stanley Cavell, “qualsiasi prospettiva critica si basa sempre sul richiami ad affermazioni ovvie; qualsiasi “scoperta” critica si presenta sempre come scoperta dell’intera verità di un’opera, tutto questo spesso finisce per intrecciarsi con il problema dell’idiozia e dell’arroganza, sicuramente diffusa tra le masse….”.
Questa è la ragione per cui risulta francamente deprimente leggere certe affermazioni di filosofi, purtroppo in cattedra. Il noto detto “ non c’è cosa tanto sciocca che non sia stata detta da un filosofo”, continua a trovare conferme. Sulla pagina culturale di un quotidiano, un filosofo, per “giustificare” l’azione di Andy Warhol”, consistita nell’esporre in gallerie d’arte logo di prodotti in vendita nei supermercati, fiocchi d’avena Kellog’s, pesche sciroppate Del Monte, zuppa di pomodoro Campbell’s, Ketchup Heinz, non trova di meglio che tirare in ballo “l’elemento ontologicamente costruttivo”, anche se non è chiaro cosa questo significhi e soprattutto quale attinenza abbia con il gesto di Warhol. La tesi dimostrerebbe che l’opera d’arte è essenzialmente “una cosa”, appare una tautologia abbastanza risibile. E’una “cosa” anche il contenuto dei barattoli di Piero Manzoni. Senza scomodare le categorie di Aristotele è chiaro che tutto ciò che è materiale è cosa. Ma il filosofo da rotocalco, non pago di simile profonda considerazione, ci spiega che i ready made trovano conferma e giustificazione nei musei archeologici dove sono esposti scheletri, lapidi, sarcofaghi, anfore. Sembra sfuggire, al dotto studioso, che una cosa sono le testimonianze storiche, altra cosa manufatti e prodotti escatologici e/o alimentare destinati ad altre sedi e altri usi. Non c’è dubbio che il tentativo di Duchamp di epater les bourgeois , ripetuto fino alla noia dai numerosi nipotini, si è dimostrato un colossale fallimento. Non solo perché è stato prontamente museificato, osannato dalla critica, quasi fosse in se un atto geniale, ma soprattutto perché ha contribuito a frenare lo stimolo alla ricerca di forme di espressività capaci di dare senso all’evoluzione della ricerca di rappresentazione della contemporaneità, ha fornito pretesto agli artisti “trovarobe” ai quali non è parso vero supplire alle loro carenze tecniche e concettuali facendo ricorso all’utilizzazione di tutto ciò che poteva avere una parvenza di trasformazione in opera d’arte, bastando la natura ontologica di “cosa”, tutto è utilizzabile, riciclabile, vendibile. Con il risultato che anche una mucca in formaldeide diventa vitello d’oro per l’artista, scorno per chi ancora si illude che l’arte sia altro.
Damien Hirst. The Physical”, 1991