Post by Category : arte e cultura

Arte a perdere. Tra alienazione e tecnologia.  0

Nel XVIII secolo Kierkegaard ha espressamente esplicitamente afferrato e acutamente penetrato il problema dell’esistenza come problema esistentivo. La problematica esistenziale gli è però così estranea che egli quanto alla prospettiva ontologica resta completamente sotto il dominio di Hegel e della filosofia antica vista attraverso quest’ultimo. Perciò dal punto di vista filosofico c’è molto più da imparare dai suoi scritti di edificazione che da quelli teorici e inclusi nel concetto di angoscia. Quando pensiamo all’angoscia rappresentata nella pittura automaticamente  viene in mente l’urlo di Munch, questa figura sul ponte, sotto il profilo pittorico non è poi così significativa, e tuttavia è entrata nell’immaginario collettivo come espressione di angoscia.

Molto più angoscianti sono le pitture di Francis Bacon, esseri sanguinanti,  quarti di bue appesi a ganci, visi deformati e urlanti.

Lucien  Freud dipinge l’essere umano di fronte alla decadenza fisica,  rappresenta corpi in preda al disfacimento, persone anziani con  sguardi voti, rassegnati, con espressioni di assoluta tristezza.

Nella pittura di Baltus troviamo invece  immagini apparentemente meno inquietanti, adolescenti ritratte in pose lascive, scomposte. Rappresentazioni di un pedofilo la cui inquietudine è sublimata dalla pittura,una forma  più sottile ma non meno profonda d’angoscia.

Grant Wood uno dei maggiori esponenti del gotico americano realizza figure statiche con  espressioni perse nel vuoto, in ambienti freddi con edifici che si richiamano allo stile Gotico del quale sembrano fare la parodia.

Edward Hopper crea immagini di una modernità che sembra aver perso il senso dell’esistenza, coppie assenti a se stesse, incapaci di comunicare, sedute in stanze di albergo anonime.

Getty Image va oltre, presenta l’essere umano con ferite sanguinanti che vengono coperte con fasce. Difficile immaginare il contenuto di comunicazione  di simili figure che sono allo stesso tempo banali e inquietanti.

Herman Nitch  mutila e crocifigge gli animali, presenta immagini di una vagina nel periodo mestruale, fa del sangue oggetto delle sue opere con eccessi di brutalità visiva che si stenta a credere possano indurre al collezionismo.

Questa breve e incompleta rassegna di opere che sono sintomo chiaro di una società triste, confusa, cinica e immensamente triste, persa nell’angosciante vuoto esistenziale avendo perso il senso della propria vita.

Da sempre l’essere umano ha avuto difficoltà nel trovare un equilibrio tra sé stesso e la realtà nella quale si trova a vivere.

Hegel affrontò il tema dell’alienazione in un tempo in cui il problema cominciava a profilarsi, erano i primordi dell’era industriale, quando ebbe inizio la cesura tra essere umano e natura. E’ come se la natura avesse preso atto della nostra indifferenza per ecosistema e, per così dire, ci avesse abbandonati al nostro destino. L’estraneità alla natura ha reso l’essere umano alienato, come iscrive Hegel, dall’estraneità alla natura alla estraneità a se stesso, in un galleggiamento privo di pensiero, senza spiritualità, immerso nel materialismo, nel consumo, assorbito dalle proprie   passioni ludiche, nei propri vizi e nei  quali si dibatte, spesso quasi con compiacenza.

L’arte non anticipa i tempi, li segue zoppicando, quindi rappresenta senza filtro critico le immagini della “CommediaGotico americano - 500 umana”  che Honoré de Balzac  descrisse così efficacemente  nel suo celebre romanzo.

 

Grant Wood. “Gotico americano” olio su tela 1930

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Visione e pensiero.  0

È Vediamo ciò che pensiamo e attraverso ciò che conosciamo. Lo sguardo come interrogazione, come un passo verso la conoscenza. La costituzione fondamentale della visione si manifesta in una particolare tendenza al “vedere”. Di una persona particolarmente acuta si dice che “sa vedere le cose”. Definiamo la propensione a vedere con il termine: curiosità. E’ la curiosità il principale stimolo alla conoscenza. Noi interpretiamo il fenomeno della curiosità come un fondamento ontologico- esistenziale.

Già nella antichità e nella filosofia greca fu studiata la base del piacere di vedere. Il libro che occupa il primo posto nella raccolta dei trattati aristotelici di ontologia inizia con il fermare l’attenzione sulla visione. Lo sguardo, il vedere, osservare, stimola la riflessione ed è alla origine della scienza come lo è dell’arte. Non è pensabile un pittore privo di vista.

L’interpretazione greca della genesi esistenziale della scienza non è casuale. In essa si fa esplicito ciò che era già delineato nella filosofia di Parmenide. L’essere è ciò che si manifesta alla visione intuitiva pura.

Hans Belting affronta il tema della storia visiva mettendo a confronto diversi aspetti della visione. Nel “I Canoni dello sguardo” (Bollati Boringhieri 2010) usa l’emblema della finestra per sottolineare come mentre nella civiltà occidentale la visione è fondata sul primato dell’occhio e sulla sovranità del soggetto osservatore, la civiltà araba privilegia la luce ed è fedele al grafismo non iconico.

Agostino si interroga sulla concupiscenza dello sguardo, come il vedere influisca profondamente sui nostri pensieri. Oggi che viviamo nella civiltà delleimmagini ci troviamo ad dover affrontare la volgarità delle immagini che incessantemente vengono trasmesse da cinema e tv  e si riflettono nei  comportamenti quotidiani delle masse.

I sistemi complessi che sovraintendono la produzione di immagini hanno fagocitato anche l’arte. Gli artisti hanno abbassato gli occhi sugli strumenti tecnici rinunciando alla visione immaginifica che guida la mano creatrice. Si è attuato una sorta di incapsulamento tecnologico che ci assorbe e ci distrae, soprattutto diventa un “bisogno” di evasioni,  ci rende più psicolabili. Siamo abituati a vedere in ogni dove le persone concentrate sul proprio telefono compulsare sulla tastiera per trasmettere il nulla. La  visione del mondo si è ridotta per molti allo spazio di cm7 X11 dello schermo del telefono.

 

Immagine: Immagine pittorica rielaborata da Piergiorgio Firinu . “Stupore e sgomento”.

Stupore 500

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Il gusto e la forma.  0

Nell’arte si giudica dalla forma dell’oggetto attinente all’estetica, o al suo contenuto? Non c’è dubbio che rispondere a questa domanda vorrebbe dire chiarire il senso della filosofia dell’arte. Peccato che la risposta sia impossibile se non tramite apodismi. Infatti, mentre la quantità e anche la natura di un oggetto in quanto materia può essere accertata,  altra cosa è stabilire la qualità con una approssimazione che possa essere generalizzata.

La scelta diventa soggettiva e si affida al sostantivo maschile “gusto”, cioè qualcosa di estremamente opinabile.

Spinoza chiarisce questa propensione nello scolio della preposizione 39 dell’ Etica: “..noi non desideriamo niente per il fatto che lo giudichiamo buono , ma viceversa diciamo buono ciò che desideriamo…”  .

Già l’estetica medioevale aveva tentato distinzioni in questo campo. Scoto Eriugena, anticipa la brama collezionistica quando descrive un elegante vaso d’oro, ornato di pietre preziose, guardato dal saggio e da un uomo vizioso. Il saggio ammira l’oggetto per la forma. L’altro guarda ed è preso da desiderio di possederlo. Questa contrapposizione ha una parte considerevole nell’estetica medievale. In Tommaso d’Acquino è già formulata nel senso che è un godimento dell’armonia delle forme, di piacere estetico.

Ciò implica, come abbiamo detto, il gusto. Tema sul quale Galvano della Volpe formula una teoria che tracima  nella socialità dell’arte. Operazione tutto sommato tautologica.

Diciamo che la filosofia dell’arte, specie di matrice statunitense, ha contribuito non poco a far nascere il gusto Kitsh e il gusto Kamp. Quest’ultimo è soprattutto preferito dalle comunità omosessuali. Andy Warhol era una sorta di guru della numerosa comunità omosessuale newyorkese che gravitava intono alla Factory.

Quello che Hermann Broch chiama uomo Kitsh  si fonda sulla menzogna, come egli afferma,  su una rappresentazione per lo più poco consapevole, falsa, illusoria  del rapporto con la realtà sociale. Egli scrive: l’uomo contemporaneo ama il Kitsh perché è Kitsh.

Peter Sloterdijk nel primo volume di Sfere (Editore Cortina 2014) pagine 496-97 scrive a proposito della musica Pop e la descrive psicoacustica, o come la definisce Tom-Götter   divinità del suono, ritorno alle caverne. E’ possibile sentirla  soprattutto nelle Love Parades e nei Gay Pride.

Ecco dunque che l’incultura della contemporaneità ha la propria arte, la propria musica e la propria letteratura, il tutto proposto e riproposto dai media, in particolare tv e cinema.   Kamp -500

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Le regole della abbazia di Thelème.  0

E’ un luogo comune, come tutti i luoghi comuni contiene una buona dose di verità, la diffusa convinzione che i veri artisti abbiamo la capacità di anticipare il futuro. Sfogliando la storia della letteratura non mancano gli esempi, qui vorremmo soffermarci sul capolavoro di Francois Rabelais “Gargantua e Pantagruele”. Dopo la guerra contro Picrocole, Gargantua premia coloro che hanno combattuto dalla sua parte. Fra Giovanni rifiuta tutti i doni e chiede di poter erigere un abbazia che chiamerà “Thelème”. Dal greco, desiderio, volontà: a significare che era un luogo libero. Infatti sul frontone dell’abbazia venne scolpita la  frase “ Fa quello che vuoi” Questa avrebbe dovuto essere la prima regola di quel luogo. Se non che, scritte in poesia e in prosa, seguono pagine in cui è indicato chi può essere ospitato, chi no, cosa si può fare a cosa non si può fare. L’originalità consiste nel fatto che le regole sono esattamente opposte a quelle in vigore all’epoca nei conventi, tuttavia sempre regole sono. Ma, ecco l’intuizione geniale di Rabelais, le regole risultano in fondo non necessarie giacchè prevale lo spirito gregario. Scrive infatti il nostro: “E proprio per tale libertà, assunsero una lodevole emulazione di fare tutti quello che vedevano fare a uno di loro. Se qualcuno diceva:”Beviamo”, tutti bevevano; se diceva “Giochiamo”, tutti giocavano; …” E così di seguito. Se qualcuno pensa ai giovani di oggi?  “Honni soi qui male y pense”.

 

Abazia di Thelème- 500

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I paradossi della società contemporanea.  0

 

La lettura dell’ultimo lavoro di Paul Virilio “L’incidente del futuro” suscita reazioni contrastanti.  Un filosofo si occupa della deriva socio-culturale a cui siamo immersi da tempo, mette l’accento sugli apodismi alla base della incongruenza sociale. La tesi che sviluppa non è però coerente. Il progresso non elimina ciò che resta di umano in noi, com’egli sostiene. Se così fosse  non ci troveremmo sommersi da crescente entropia sociale con la quale dobbiamo fare i conti. Il progresso è usato a pretesto e giustificazione di comportamenti ignobili e insensati, tipicamente umani. “Progresso” e “Libertà” sono i due miti del nostro tempo. Gli esempi citati da Virilio dimostrano  che non sempre i due termini sono compatibili. Non perché il cattivo di turno, scienziato o politico, disponga di macchine infernali di coercizione. Il “Il Grande Fratello” è opera di mediocri personaggi della comunicazione e spettacolo. L’ansia di prostituirsi moralmente è così diffusa da non avere bisogno di essere incoraggiata. Le ventimila ragazze che si presentano per un posto da Velina, vedono se stesse come evolute, moderne, aperte a tutto ciò che è nuovo. Dunque alla locomotiva del progresso non serve il ricorso a violenza e/o sotterfugi per procurarsi il carburante. Una folla davanti alla caldaia ansiosa di buttarsi nelle fiamme della “libertà” e progresso”. Forse, avrebbero difficoltà e definire i due sostantivi, ma questo non fa differenza.

 

 

Angelo-Morbelli-Venduta-1897-Arte-Svelata

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Realtà e percezione.  0

Vi sono realtà che percepiamo ma non vediamo. Il freddo, il caldo. L’ombra la vediamo ma è percepibile al tatto,  non è nulla solo assenza di luce. Altre realtà sono un nostro difetto di visione. Immaginiamo un daltonico, un astigmatico, osservano un oggetto  e lo vedono difettoso, un colore diverso, una immagine sfocata. Vediamo cioè un difetto nell’oggetto osservato mentre in realtà il difetto è di chi osserva. Questo tipo di difficoltà può essere individuato e risolto con l’ausilio di un supporto tecnico. Ma cosa accade quando un difetto di valutazione, di comprensione, sono dovute all’intelletto, quando cioè l’intelletto non riesce a comprendere uno scritto, un pensiero, una fenomeno?  Intanto è estremamente difficile stabile con sufficiente approssimazione il reale livello di comprensione. Conoscere non equivale a capire. Questa spiega l’apparente paradosso di persone colte ma ottuse.

Nella grande ricchezza della lingua, chi scrive si trova impegnato nella ricerca della parola giusta, che risponda esattamente al concetto che vuole esprimere. Secondo Roland Barthes  la ricerca della parola giusta  costituisce l’essenza della letteratura.  Altri tempi.

Platone si servi dell’espressione idea nel senso di qualcosa che non è ricavato dai sensi , ma sorpassa anche i concetti dell’intelletto. Le idee sono per lui gli archetipi delle cose stesse, non semplici chiavi per esperienze possibili. Per Aristotele nell’esperienza non s’incontra mai nulla che vi sia adeguato.

Se noi partiamo da queste premesse per esaminare la narrazione condotta dalla filosofia dell’arte, ci rendiamo conto che, nella maggior parte dei testi, non si manifesta la capacità di penetrare il significato vero del fenomeno arte nella espressione materiale in cui si presenta. Se, ad esempio, com’è stato stabilito, il colore esprime pura emozione, il voler dare un significato  razionale a un opera astratta, basata cioè esclusivamente sul colore, è operazione inattuabile se non facendo ricorso ad apodismi. A meno di supporre che il filoso più che un tentativo ermeneutico, si affidi a   un esercizio di narrazione sofistica.

Zenone d’Elea, sottile dialettico, fu molto biasimato da Platone  come petulante sofista, perché egli per dar prova della sua abilità dialettica cercava di una stessa proposizione dimostrare, tramite speciosi argomenti, prima la sua fondatezza e poi la sua inconsistenza logica. Quando un filosofo scrive testi per tentare di argomentare in ordine ai fenomeni artistici, distinguendo qualità, significato e valore di singole opere, e poi approdare all’affermazione: tutto è arte. Va da se che, se tutto è arte sono pleonastiche le distinzioni di merito e di valore, tutto è affidato al gusto e alla scelta soggettiva, le teorie sull’arte si disperdono in immaginazione decettiva.

Calzolari 500

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Arte estemporanea.  0

Qualunque sia il contenuto della nostra conoscenza, e in comunque modo si riferisca all’opera che stiamo osservando, il nostro giudizio è frutto di una sedimentazione di saperi ed esperienze. La preposizione: “a nessuna cosa conviene un predicato che la contraddica”, si chiama principio di non contraddizione; è un criterio generale che appartiene alla logica. L’equivoco nasce dalla modalità di narrazione con pretesa ermeneutica  del tutto apodittica. Il giudizio critico viola il principio di non contraddizione ogni qual volta presume di identificare nell’opera significati che non sono riscontrabili. I giudizi sono spesso accolti per abitudine e si combinano con le inclinazioni. Da questo punto di vista appare molto più distruttiva la critica dello psicologo Daniel Wegner che argomenta: “ Le ragioni che adduciamo per giustificare le nostre scelte  sono mere confabulazioni, congeniate a posteriori , e per ciò casualmente irrilevanti per la produzione dei nostri giudizi”.  Dovrebbe valere l’affermazione di Kant secondo cui: “ La verità di un giudizio è l’accordo della  conoscenza con il suo oggetto”. Ma come può valere la conoscenza di un opera che non ha un ontologia definita? Per esempio da dove si possono trarre gli argomenti per attribuire significato a un opera astratta che palesemente non rappresenta nulla, nel senso che è priva di fondamento logico ed ha solo un impatto emozionale indotto dalla  disposizione del colore senza disegno? In questi casi entrano in gioco le diverse sensibilità. La storia dell’arte non è solo una teoria di artisti e opere, ma entra nel vivo della storia e della cultura dell’epoca in cui fu creata. Per questa ragione, in molti casi,  razionalità e logica non sono necessarie, l’opera è la traccia di un evento, l’immagine di un personaggio, uno scorcio di natura. Nulla di tutto questo è ravvisabile nella maggior parte dell’arte dell’ultimo secolo. In misura ancor maggiore nella cosiddetta arte astratta. L’espediente della critica è spesso di attribuire all’artista un intento preciso, ricamando immaginifici dettagli sulla personalità del soggetto creatore. Come quando si attribuisce a Jackson Pollock la capacità di indirizzare il dripping alla realizzazione di una precisa forma. Trattasi, a mio avviso, di decettività fantasiosa, priva di riscontro oggettivo. In realtà l’esperienza artistica è possibile solo mediante una rappresentazione  per realizzare la quale è necessaria  la percezione filtrata da gnoseologia e sensibilità che diventano forma.      Scimia

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Unicorno. Mitologia dell’ impossibilità.  0

L’idealismo materiale, ossia l’idealismo che si riferisce alla materia del conoscere, si contrappone all’idealismo formale. L’idealismo problematico di Cartesio dichiara indubitabile solo un’affermazione empirica cioè:  io sono. Quello dogmatico di Berkeley  considera lo spazio con tutte le cose a cui esso aderisce quali condizioni inseparabili, come qualcosa in se stesso impossibile e dichiara perciò anche le cose nello spazio semplici immaginazione. Ora se noi consideriamo la rappresentazione, come  concetto materializzato di una cosa rappresentata, dovremmo dedurne che un concetto resta vuoto se non confermato dall’esperienza. Nella logica immaginaria dell’arte tutto è diverso. Un artista può dipingere, dar forma a un unicorno. L’unicorno esiste,è davanti ai miei occhi,  ma non nella realtà. L’arte  quindi realizza un ossimoro, crea una realtà che non esiste. L’artista può scegliere tra collocare l’unicorno nello sfondo di una realtà conosciuta, oppure, coerentemente, creare una realtà immaginaria nella quale collocarlo. Altro ossimoro. Tuttavia,  mentre l’unicorno è figura mitologica nota, la realtà immaginaria creata dall’artista nella quale colloca l’unicorno, è interamente frutto della sua fantasia creativa, quindi  distinta dal reale. Quando affermo che l’arte contemporanea è frammentata, mi riferisco alla difficoltà dell’artista di creare una realtà nella quale collocare l’unicorno, dare quindi compiutezza e continuità la narrazione. Questo limite non impedisce di usare un’immagine mitologica, ma, come detto,  rende problematico saper dare all’unicorno una giusta collocazione. Resta la realtà dell’unicorno, per restare alla metafora,  esso è collocato però nella scenografia di una realtà nota. E’ quanto ha fatto il surrealismo:  immaginare  un significato senza la capacità di realizzarlo in una forma compiuta. Una narrazione interrotta che ha aperto la strada all’uso di concetti formali i quali, ancora più che nel  surrealismo, restano sospesi nel nulla, privi di una definizione semantica. La rinuncia alla mimesi e alla narrazione storica,  ha condotto l’arte al fallimento formale e contenutistico. Così come  il delirio modifica tutto ciò che comunque fa parte della nostra esperienza pregressa, mentre oggetti e persone vengono semplicemente deformati, modificate. L’arte con la pretesa di affidarsi alla concettualità, rischia di realizzare qualcosa di simile. Creare una sospensione tra il possibile e immaginario, dare una forma del tutto insufficiente ad esplicare un contenuto autonomo che giustifichi se stesso in una definizione ontologica non spuria. Non c’è dubbio che le teorizzazioni ormai  hanno poco a che vedere con l’attuale sistema dell’arte, vista la situazione di un mondo artistico che in pratica funziona esclusivamente in funzione del mercato. Tuttavia sarebbe utile che gli artisti prestassero maggiore attenzione alle motivazioni del loro operare. Forse sarebbero indotti a tentare di dare un’impronta, un significato,  alle opere che producono in modo da evitare di galleggiare nel vuoto di velleitarismi,  come purtroppo avviene con eccessiva frequenza.Il castello sui pirenei- 500

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Donne, arte, potere.  0

Con il libro “Il paradosso di Antigone” ho tentato di descrivere il fondamento decettivo delle teorie femministe  che tendono a rappresentare la donna  vittima di una cultura patriarcale. La storia dell’occidente, dove maggiori sono le recriminazioni femminili, dimostra  che non c’è mai stata vera sottomissione della donna. Ovviamente ci sono, e ci sono state  questione naturali e sociali che in qualche misura determinano i ruoli con vantaggi e svantaggi  che vanno sicuramente valutati e in molti casi superati da entrambe le parti.

Resta il fatto che le disuguaglianze non sono prevalentemente di genere, ma di classe sociale.  Il problema è ben descritto da Karl Max  nel Primo libro del Capitale.

La storia registra il diffuso potere femminile, non solo nella versione descritta da J.J. Bachofen, ma nel tessuto vivo della società.

Ci vorrebbero più libri anche solo per elencare donne regine, nobili, cortigiane che hanno  avuto potere, in qualche caso assoluto. Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, Caterina di Russia e molte altre. Da notare che nessuna delle donne che hanno avuto il potere ha inciso sulla posizione sociale delle donne. Rispondere a questa domanda ci aiuterebbe a capire molte cose, ma non è questa la sede.

Quanto scritto appare evidente anche nel campo dell’arte. Nella impossibilità di ricostruire per intero gli eventi, ci limitiamo  a brevi cenni prendendo in considerazione un periodo particolarmente interessante della storia di Francia, tra il 1643 – 1742.

Era l’epoca in cui l’assolutismo regio sperperava enormi somme di denaro in feste e lussi di ogni genere, nell’acquisto di opere d’arte, creando grandi collezioni  poi finite nei musei, in particolare al Louvre. Ebbene anche in quel periodo la corte era dominata dalle donne nobili e cortigiane.

In particolare due donne si contendevano il predominio nel campo dell’arte. Yeanne f’Albert de Luynes, contessa di Verrua e Jeanne Antoinette, marchesa de Pompadour. La prima, dopo varie relazioni con uomini potenti realizzò una collezione di opere d’arte senza uguali,  all’epoca si diceva fosse superiore anche a quella del reggente, il Duca di Orleans. Alla fine della sua vita la contessa Verrua creò una specie di casa di tolleranza di alto bordo  che era chiamata Maison de volupté.

La marchesa de Pompadour era la favorita di Luigi XV. Nei ventun anni durante i quali fu maîtresse en titre du Roi dei France, Luigi XV dissipò 72 000 000 di livres per lei. Era il personaggio più potente in Francia, faceva e disfaceva ministri, disponeva di uffici pubblici, di onori e privilegi. Anche Pompadour creò una immensa collezione d’arte che alla sua morte venne gestita da Colbert e Charkes Le Brun.

Ovviamente questi sono solo due tra i moltissimi casi che la storia politica e la storia dell’arte registrano in ordine al potere femminile. La posizione sociale della donna non fu mai una conquista, un merito guadagnato in attività utile alla nazione. All’epoca i maschi si guadagnavano titoli nobiliari e privilegi sociali, sopratutto sui campi di battaglia per conquistare nuovi territori o per difendere la nazione. Ovviamente molti pagavano con la vita. Per le donne posizione sociale e privilegi erano sempre frutto di eredità, matrimoni o relazioni amorose.    Madame de Pompadour 500

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Il rischioso passaggio dalla forma del concetto.  0

Paradossalmente il positivo della filosofia  è costituito anche dal linguaggio quasi sempre tortuoso, spesso inutilmente complesso. Perchè dico positivo? Perché l’oscurità del linguaggio induce, a chi voglia capire, soffermarsi con attenzione, rileggere e riflettere.

Questo attiva l’intelletto e lo stimola. Di negativo resta  che spesso la difficoltà di comprensione non è data dalla complessità dell’argomento trattato, quanto piuttosto dalla modalità del linguaggio e l’uso di espressioni inutilmente complesse.

Quanto sopra premesso spiega perchè, quando la filosofia entra a gamba tesa bel mondo dell’arte  ed attua una propria ermeneutica, non si propone la comprensione dell’opera in esame, ma  usa l’opera come pretesto per un esercizio filosofico linguistico parallelo. Ciò produce un effetto surreale  di sdoppiamento semantico .

Posto che l’opera in esame, prima della realizzazione, sia stata pensata dall’artista, quale è il percorso mentale che consente al filosofo di interpretare le ragioni che hanno motivata l’opera?  Il filosofo compie un processo a ritroso, si riappropria  del percorso creativo dell’artista e attraverso questo immaginario processo pretende di attuare un’ermeneutica esaustiva.

D’altra parte, nel momento in cui l’artista abbandona la mimesi, rifiuta il bello e pretende di concretizzare nell’opera una operazione concettuale, cambia la natura stessa del suo agire e da artista diventa filosofo. Siccome presumibilmente la sua preparazione filosofica non è sufficiente a realizzare una vera sistematicità filosofica che egli pretende esprimere nell’opera, ecco dunque che si pone in sottordine a teorie più complesse e apre le porte alla filosofia che non si limita più all’ermeneutica dell’ opera, ma pretende di stabilirne la natura.

Di conseguenza la rappresentazione del reale, filtrato dalla sensibilità dell’artista, lascia il campo ad un creatore di concetti quale l’artista pretende di essere. A  posteriori i concetti si sovrappongono alla forma che non più rappresentativa in se stessa .

Inoltre, collegare la rappresentazione di una certa idea ad un determinato oggetto, è processo empirico non necessariamente valido perché può essere inquinato da eccesso di soggettività. Si crea quindi un discrasia per cui la logica della rappresentazione non coincide più  con l’immaginazione produttiva.

Piergiorgio Firinu. “I pugni in tasca” . Immagine tra passività e impotenza. Fotografia elaborata. 2020

 

 

I pugni in tasca

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