Goalkeeper, 1976
Quando Hegel conferisce il primato dell’arte sulla natura considerando l’arte creazione dello spirito, apre suo malgrado, il vaso di Pandora i cui effluvi finiscono per far evaporare lo spirito a cui egli si riferisce, lasciando la nuda materia come realtà e rappresentazione. La bellezza è rifiutata in quanto non esiste più la spiritualità che essa può riflettere. La bellezza che, secondo Hegel , è parvenza sensibile dell’idea , disturba, in un mondo in cui l’idea è considerata estranea all’arte. Se così non fosse non si darebbe importanza alla triste boutade di Picasso “ho impiegato tutta la vita a imparare a dipingere come un bambino”. A meno di supporre che il percorso di conoscenza ed esperienza sia soltanto perdita di tempo, tanto ci sono i filosofi addetti alla ricerca di significati. L’artista come demiurgo che si pone al di sopra della natura ed acquisisce autoreferenzialità fino al punto in cui si ritiene esentato dalla creazione avendo titolo per decidere cosa è arte, può scegliere qualunque manufatto. Il bello soccombe al kitsch della modernità. Hegel ha fatto da battistrada a Duchamp, e a tutti gli arbitrii delle avanguardie tanto arroganti quanto culturalmente sprovvedute. Come la descrizione dello spirito non lo crea, anzi se mai lo corrompe con pleonastiche verbosità, l’arte non è chiarita, si piega sotto il peso dei paralogismi, il segno significante soccombe alla sofistica ricerca di un significato che non c’è. La filosofia dell’arte non crea e non aiuta a capire, piuttosto devia il senso, si presta ad inventare alibi all’insignificanza formale. L’arte “bella” non è mai stata solo simbolica o solo rappresentazione, ma costituiva la simbiosi di entrambi gli aspetti. L’idea espressa nella materia, l’edos. Da prima si è rinunciato al simbolo, poi si è considerata superflua la forma creata rifugiandosi nella triviale rappresentazione tautologica della realtà precostituita, ovvero al ready made . A questi passaggi la filosofia dell’arte ha tentato di attribuire significati. Con forzatura metonimica si è preteso di fare di un frammento la rappresentazione di un improbabile tutto. All’insignificanza dell’arte segue il fallimento della filosofia che la descrive.
L’arte è per Nietzsche un commovente ricordo delle gioie della giovinezza, l’artista come una reliquia. La pretesa dell’Illuminismo di svelare attraverso la ragione l’antico incanto del mondo è miseramente fallita, non solo perché troppa luce, come il buio, finisce per impedire la visione, ma soprattutto per le troppe contraddizioni che l’euforia della ragione ha prodotto. Mettere una prostituta sul trono e adorarla come dea ragione. Compiere massacri in Vandea. Pessimi viatici per la modernità. L’Illuminismo è stato un lampo subito spento dal fiume di sangue. Solo le anime belle come Kant hanno pensato che la ragione, pura o pratica, rimuovesse il grumo di stupida malvagità che da sempre incombe sull’umana natura. I disastri di una ragione priva di spiritualità le avremmo visti nel 19° secolo. I milioni di morti di Verdun, massacri di civili inermi della 2° Guerra mondiale, Hiroshima e Nagasaki, sono state le prime spaventose avvisaglie di ciò che la belva umana, con l’ausilio della tecnica, era in grado di fare. Il massacro continua anche oggi. Anche l’ arte si è lasciata permeare dalla tecnica, ha perso fiducia nella propria capacità di contrapporre al cinismo la propria visione del mondo. Martin Heidegger, non è stato ascoltato quando metteva in guardia contro la stupidità della tecnica, zittito da ciance su una “classicità tecnologica”. Quella di Olafur Eliasson, più che un’opera d’arte, può essere vista come una sequenza di un film di fantascienza. Non testimonia di una nuova arte, ma della rimozione della differenza tra arte e tecnica. Se accostiamo Brillo Box alle sue opere e a quelle di Bill Viola, appare chiaro un riferimento univoco ad una ontologia dell’arte è improponibile. Siamo di fronte ad espressioni che sono agli antipodi. Così l’arte, dopo lungo travaglio, levatrice la cosiddetta filosofia dell’arte, abortisce . La funzione simbolica dell’arte attraverso l’empiria è caduta nel vuoto di autoreferenzialità priva di valore. Non è in grado di rappresentare nè la disumanità, né la residua umanità. Da sempre l’arte segue zoppicando i tempi. Come i poliziotti, arriva sempre in ritardo sul luogo del delitto. Vi è qualcosa di commovente nei tentativi di tenere in vita una cosa morta. La rianimazione avviene con una sorta di insufflazione, un bocca a bocca tra il cadavere dell’arte e la filosofia. Se l’arte è morta, la filosofia non stà troppo bene e cerca di tenersi sveglia ricordando le favole dei vecchi sapienti, quando ancora c’era spazio per l’ottimismo. Non è vero che la dichiarazione di morte dell’arte fatta da Hegel, lasci spazio a un nuovo inizio, che infatti non c’è stato. Lasciandosi permeare dalla tecnica, l’arte ha mutato natura. La fenice è risorta trasformata, qualunque cosa sia, non è più arte. E’ patetica,forse fraudolenta, la pervicacia nel voler usare il sostantivo arte per questa nuova cosa che oscilla dalla tecnica ad esibizionismi corporali femminili, vuoto assoluto di progettualità simbolica, nessuna idea propositiva, solo un bailamme mondano, una umanità sotto vuoto spinto. .
Una delle prerogative dell’ignoranza di ritorno, sembra essere l’ossessione del senso comune, giudicato banale. Questa avviene in ogni ambito, ma raggiunge una dimensione ipertrofica nel campo della critica e filosofia dell’arte dove abbondano le più astruse elaborazioni verbali per costruire improbabili teorie. Proviamo a partire dall’inizio. Un laureato in giurisprudenza, ingegneria, medicina, e in tutte le altre facoltà che aprono la strada a prestazioni professionali, prima di poter esercitare la propria attività deve dare un esame che gli consente l’ammissione al proprio ordine professionale. Anche per fare l’usciere in una società o Ente, l’aspirante deve sottoporsi a un test dopo avere presentato credenziali e titoli di studio. Nulla di diverso accadeva nel Medioevo per essere ammesso alle corporazioni degli artisti e a Gilde. Gli artisti, prima di poter operare, dovevano frequentare per anni la bottega di un maestro, in ogni caso le loro opere erano giudicate per la loro qualità, facilmente comprensibile anche un profano. Non c’è persona, per quanto ignorante, che non resti incantata di fronte a un’opera del Beato Angelico, Botticelli, Raffaello, Tiziano e via elencando. Oggi la “modernità” ha soppresso tutto questo. E’ vero che esistono Accademie e facoltà di estetica, ma i docenti sono in buona parte gli stessi che hanno operato per ridurre l’arte nello stato in cui si trova. Si dice: è considerata un’opera d’arte un manufatto scelto come tale dall’artista. Ci si dimentica di chiarire chi è l’artista? Come acquisisce tale status? Dalla frequentazione dell’Accademia? A parte che le accademie sfornano ogni anno decine di artisti “virtuali”. Vediamo le credenziali di alcuni dei grandi maestri. Mario Merz da ragazzo vendeva giornali per le vie di Torino. Alberto Burri era un medico. Andy Warhol un grafico pubblicitario, tanto abile da essere riuscito, senza cambiare metodo di lavoro, a far accettare come opere d’arte le sue realizzazioni grafiche e multipli. Dunque critica e filosofia dell’arte si sono prestate a rimuovere le basi stesse della preparazione di coloro che, in base alle loro elaborate teorie sull’ontologia dell’arte, dovrebbero decidere cos’è arte, cioè gli stessi artefici delle opere. Ci troviamo di fronte a situazioni surreali. La metafisica, cacciata dalla filosofia/filosofia, ha trovato rifugio in una sottospecie: la filosofia dell’arte. Non è in predicato la libertà di chiunque di dedicarsi all’arte, anzi i dilettanti sono spesso maggiormente motivati. Cosa diversa è creare miti, intessere esegesi fantasiose come è avvenuto per l’arte contemporanea , con disprezzo di ogni plausibilità e logica. Gli orinatoi, i sacchi di rifiuti, la merda, spacciati per arte, sono conseguenza di questa “negligenza” iniziale che ha proliferato, nel senso letterale del termine, in misura esponenziale. L’ incapacità di definire etimologia reale della forma, aggiunta a mancanza di sensibilità hanno prodotto il disastro a a cui assistiamo impotenti. La tesi: tutto è arte, da un potere enorme a mercanti e imbonitori. Basta entrare nel cerchio magico, possono essere utili sesso, politica, amicizia, genere. Quello che invece è superfluo è sapere cos’è l’arte e come si realizza un vera opera d’arte. Altro che collocare l’opera nella narrazione, come sostiene qualche filosofo, difficilmente in buona fede. Va da sè che, arrivati a questo punto, la fitta trama di interessi , l’intreccio di teorie fantasiose e decettive, non è più dipanabile. Riportare l’orinatoio di Duchamp al proprio uso sarebbe considerato un sacrilegio, anzi anche solo a proporlo, si va incontro all’accusa di essere reazionari e ignoranti. Dunque, non possiamo far altro che ripetere con Wittgenstein: va bene così.
La stampa è considerata uno dei pilastri della democrazia moderna. Tuttavia un analista dei media fa emergere che la loro parzialità priva il pubblico della possibilità di comprendere il mondo reale, quanto meno avere un atteggiamento critico sulle maggiori distorsioni. Questa affermazione è suffragata da elementi che emergono quotidianamente dalla lettura dei giornali e osservazione della Tv. Non è del tutto vero l’assunto che il campo dell’informazione è “posseduto” dai capitalisti che assumono personale per confezionale e vendere un prodotto. Per rendere il “prodotto” accettabile da un gran numero di persone, può servire l’uso di massicce dosi di demagogia. La struttura dei media è costruita in modo da promuovere l’adesione alle idee convenzionali, a volte rivestite da un “progressismo” di facciata. Quanti milioni spendono per pubblicità sui media le case di moda? E’ inevitabile che anche le loro iniziative nel campo dell’arte trovino vasta eco, a prescindere dalla qualità degli artisti proposti. Un critico, un commentatore, avranno tanto più successo quanto più sapranno vendere aria fritta per aria nuova. E’ del tutto evidente, per chi voglia vedere, che la stampa italiana si accoda alle notizie diffuse dalle agenzie internazionali, per lo più anglosassoni, e comunicazioni provenienti da organi governativi. La mancata reazione alle menzogne di George Bush per giustificare l’attacco all’Iran è significativa. Non diversamente è stata manipolata la pubblica opinione per giustificare l’attacco alla Libia, deciso da Francia, Inghilterra, USA. Non c’è stato un solo presidente Usa che non abbia scatenato una guerra di aggressione a una nazione indipendente, con la scusa di difendere o esportare la democrazia, vale a dire il modello di vita americano considerato per definizione il solo accettabile. Forse in troppi hanno introiettato la tesi di Hobbes sul monopolio degli Stati all’uso della violenza. Si parla di torture e violenza in Ruanda, Bosnia e paesi del Medio Oriente, ma è stata messa la sordina a Guantànamo. Le conseguenze delle guerre scatenate dagli USA , Inghilterra, Francia per ragioni economiche, ricadono su tutti. Tutto ciò e reso possibile anche grazie alla complicità dei media. Ogni tanto in Europa qualche intellettuale tenta una critica. Pierre Bourdieu si è scagliato contro la regina dei media: la Tv. Purtroppo le critiche non hanno effetto, anche per la poca credibilità dei promotori che trascurano l’essenza del problema. L’influenza dei media è facilitata dalla distrazione delle masse, incoraggiate e coltivare vizi privati dagli stessi intellettuali che muovono critiche su altri fronti. Vi è poi una crescente ignoranza a cui la tecnologia fa da paravento. Le sfumature di grigio, e lo spettacolo del calcio, bastano a inebetire le masse che si sentono libere ed emancipate. Massiccia è l’azione promozionale a favore della mediocre arte contemporanea. La cultura sostituita da pubblicità & marketing. E’ questo il nocciolo della questione. La comunicazione , secondo Armand Mattelart, diventa il paradigma stesso della “conoscenza” e quindi del potere. E’ chiaro che, se la missione dei media, come qualcuno ha sostenuto, è quello di formare l’opinione pubblica, giornalisti e critici sono in larga misura inadempienti. A questa già non facile situazione, negli ultimi anni si è aggiunta la distorsione informativa che deriva dalle contrapposizioni di genere. Vi sono casi conclamati di mistificazione della realtà basati su distorte posizioni propagandistiche al servizio di ideologie prive di concretezza e logica. Non basta la libertà di poter esprimere le proprie opinioni sulla rete per migliorare il mondo. Se tutto ciò che la liberalizzazione dei costumi ha portato è l’offerta di sesso ed esibizione pornografiche. Eppure tutto ciò è difeso strenuamente dai Pasdaran del liberismo, costituito anche da reduci di una sinistra in disarmo che tradisce se stessa abbracciando le più trite teorie e perversioni borghesi. Nel circo Barnum di politica, stampa, cultura, arte, è proibito ogni accenno all’etica, anche solo al senso del limite. Leggere certi giornali di sinistra, sembra di sfogliare il Travaso, rivista porno qualunquistica degli anni ’50. Non è un caso che l’ex direttore di Cuore, sia uno degli opinion maker di uno dei più diffusi quotidiani italiani. In questa melma qualunquista, in cui destra e sinistra hanno entrambe il colore del fango, l’arte naviga a vista, realizza mostre dal romantico e significativo titolo “Caga e muori”, scritto però in inglese – Siamo o non siamo in piena globalizzazione! – Ecco dunque che dal triste panoramica si scorge una certa logica, quanto meno una parziale spiegazione dell’anfibolia contemporanea.
“Va bene così” Piergiorgio Firinu
Dalla nascita delle cosiddette avanguardie storiche, è andata maturando l’idea che si esprime nella domanda: “ Che tipo di concetto è “arte”?. I filosofi si sono avventati sull’arte forzandone l’interpretazione assumendo che l’arte non abbia una propria autonomia, ma necessità dell’ermeneutica filosofica . Per riempire le pagine di libri si citano filosofi a sproposito forzandone le teorie. Wittgenstein, con la solita icastica concisione, ha detto che spesso quando si parla di arte si arriva al “va bene così”. Le “teorie dell’arte” non l’hanno rinnovata, ma distrutta. Il problema, se mai, è che il va bene così è detto dello pseudo artista, o provocatore, mentre il filosofo si prodiga per trovare un senso a ciò che senso non ha; come farebbe altrimenti a riempire pagine di libri assolutamente inutili? Si attuano così una quantità di forzature ermeneutiche che equivalgono ad altrettanti truismi. La inadeguatezza delle teorie non è dovuta alla complessità dell’arte, che in realtà è tanto più complessa quanto più si allontana dalla propria natura. Le teorie sull’arte, per numero e artificiosità, hanno sostituito il dibattito Medioevale sul sesso degli angeli. Descrivere le proprietà che l’occhio non coglie, significa spesso formulare teorie spurie che non chiariscono ma confondono. I limiti della filosofia dell’arte sono intrinseci, detto in altre parole la filosofia dell’arte quando non è dannosa è inutile. Non cambia natura anche quando la si infarcisce di citazioni, per lo più improprie, Frege, Adorno, Cantor non hanno mai usato la loro scienza per dare spiegazioni di cosa è l’arte.
Gli azzeccagarbugli di manzoniana memoria, dalle aule dei Tribunali dilagano da tempo nel mondo dell’arte portando con sè una buona dose di approssimazione metafisica; filosofi dell’arte, docenti di estetica, critici, sembra abbiano smarrito la consapevolezza del significato della materia che trattano. Un abbaglio culturale di dimensioni terrificanti a cui è pressoché impossibile porre rimedio. Qualche anno fa apparve sui giornali la notizia che uno scienziato francese aveva scoperto la “memoria dell’acqua”. L’acqua cioè avrebbe avuto la proprietà di conservare la memoria delle cose. La panzana venne presto smentita, la scienza aveva strumenti per effettuare verifiche. A Livorno alcuni anni fa, un gruppo di studenti scolpì nella pietra alcune teste dai tratti umani, alla maniera di Amedeo Modigliani. Le buttarono in un corso d’acqua. Quando furono “scoperte” vennero sottoposte al vaglio di critici e studiosi, i quali le riconobbero come opere autentiche del maestro livornese. Solo l’uscita allo scoperto degli autori della burla consentì di accertare che si trattava di falsificazioni. Dall’inizio del secolo scorso è in atto un dibattito surreale sull’arte, rifratto passando attraverso il prisma di forzature estetiche e un enorme impegno propagandistico mediante il quale si sono creati miti come quello di Warhol. Le teorie che attribuirono lo status di opere d’arte a taluni ready made, hanno dato la stura ad una pletora di epigoni. Il dibattito, di filosofi dell’arte, docenti di estetica, critici, è infarcito di esilaranti truismi. Tiziana Andina, docente di filosofia teoretica all’Università di Torino, avvalla qualità artistiche di Brillo Box di Warhol scrivendo: “ …un abitante del pianeta Marte giunto sulla Terra senza conoscerne la storia; davvero l’esperienza estetica della Sacra Famiglia (opera di Raffaello) sarebbe in qualche modo diversa rispetto a Brillo Box?” . A parte il fatto che l’arte è un prodotto culturale,dunque i marziani avranno con ogni probabilità idee e concetti radicalmente diversi dai nostri, come pure la concezione di materia e spazio; quindi l’esempio è di un’insipienza surreale. Non è la sola citazione impropria del libro. Vi è il riferimento alla legge di Leibniz : “ le entità x e y sono indiscernibili se e solo se ogni predicato che vale per x vale anche per y – eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate”. La citazione non è pertinente, non chiarisce perché uno scolabottiglie, simile a mille altri, viene considerato un’opera d’arte. Gli anacoluti concettuali sono molti, ci vorrebbe la sagacia di Rabelais per affrontare con la giusta dose di ironia tali squinternate tesi. Ovviamente non tutti i ready made si equivalgono, questo argomento ci porterebbe lontano. Qual è la sostanza del dibattito? Alcuni mediocri artisti, per uscire dall’anonimato, hanno deciso di utilizzare lo strumento della provocazione. Hanno preteso di considerare superato ogni riferimento estetico, la “vecchia” idea di arte doveva essere considerata obsoleta, non in carattere con la modernità, di qui la pretesa di archiviare il sistema di produzione dell’arte in essere da prima della nascita della civiltà. Filosofi e critici, invece di considerare l’azzardo per quello che era, hanno imbastito diatribe che durano tutt’ora, con inevitabile gioco di rimandi in funzione di un reciproco sostegno ed uso disinvolto, quando non decettivo, di citazioni. Di fatto nessun filosofo o critico d’arte mette in discussione la scelta di certi ready made, anzi l’infinità di articoli, libri, dibattiti hanno lo scopo di dare maggiore credibilità ad opere che solo attraverso l’uso disinvolto di sofistiche tautologie possono essere considerate arte. Duchamp arriva negli USA, entra in contatto con il movimento DADA. Decide di acquistare un orinatoio in una bottega. Lo firma con lo pseudonimo “R.Mutt 1917” .Lo propose alla Society of Indipendent Artists, che, dopo accesa discussione lo rifiuta come opera d’arte. A questo punto entra in gioco il critico Alfred Stieglitz, il quale sulla rivista The Blind Man” pubblica la foto dell’orinatoio accompagnata da un articolo nel quale sostiene che il signor Mutt con l’esposizione dell’articolo ha “creato un pensiero”. Il primo a stupirsi dell’interpretazione è lo stesso Duchamp. Il signor Stieglitz non tenne conto che i pensieri non si collezionano, sono le nefaste conseguenze di quei pensieri ad avere riempito i musei, con sacchi di spazzatura, barattoli di merda e simili. Si è attuata la legge di Gresham: “la moneta cattiva scaccia quella buona” . Non a caso Duchamp ha avuto grande successo in America, terra priva di importante background artistico -culturale. Egli è stato finanziato da una ricca ereditiera americana, certa Katherine Sophie Dreier, che l’ha introdotto nei circoli mondani dei quali facevano parte le principali collezioniste delle avanguardie: Peggy Guggenheim, Gertrude Stein, Mary Cassat, e altre. Gli intellettuali hanno aderito in massa per conformismo al clima culturale prevalente all’inizio del secolo scorso, si sono prestati, per spirito servile o peggio per ragioni di lucro ad avvallare una cinica operazione commerciale condotta dagli USA intenzionata ad azzerare i valori dell’arte- arte per imporre i propri. Tutto si è riverberato in Europa creando una situazione di non ritorno. Al punto in cui siamo è impensabile invertire la rotta. L’arte è ormai fatua mondanità, dominata da artisti improvvisati, narcisi confusi, sostenuti da ricchi commercianti.
Piergiorgio Firinu
E’ chiaro che una cultura è tanto più permeabile, predisposta all’assorbimento di culture diverse, quanto più è approssimativa e instabile. Contrariamente a quanto sostiene la vulgata corrente. Anche la dibattuta questione relativa ai ready made, tende ad essere considerata in modo generico, ovvero sulla scia del rifiuto dell’estetica propria dell’arte contemporanea. L’estetica non può ovviamente essere il solo punto di riferimento della produzione artistica. Ma neppure è accettabile che i ready made siano considerati a priori come una contrapposizione alla bellezza. Credo che questo concetto debba essere rivisto. L’autonomia dell’artista non può basarsi su pregiudizi, tanto meno lo esime dal rendere intelligibile il linguaggio di cui si serve, a meno che non voglia chiudersi in un soliloquio. Nel 1976, nel corso di un viaggio in automobile da News Orleans a Los Angeles, feci una sosta in un punto deserto del Nuovo Messico. Ricordo un cartello “1000 miles Sonora” . Feci due passi per sgranchirmi le gambe e vidi in mezzo alla sabbia un ramo secco completamente traforato dalla termiti (o almeno credo). Pareva un pezzo di legno ricamato, mi colpì molto l’originale semplicità dell’oggetto. Lo raccolsi e tutt’ora lo conservo nel mio studio – foto – L’oggetto mi suggerì l’idea di ripetere l’esperimento. Collocai un ramo sulla parete del mio studio, sperando che i tarli lo lavorassero. In effetti un tarlo entro nel legno, uno solo, lo perforò da parte a parte e scomparve. Immaginai la possibilità di collocare il ceppo sopra uno dei formicai presenti nel mio prato. Rinunciai pensando alla difficoltà che avrei incontrato a liberarlo dalle formiche. Scrivo di questo episodio minimo perché penso che la scelta di un ready made possa avere diverse motivazioni e significati. Il ramo traforato che raccolsi è un “capolavoro” creato senza consapevolezza da animali. La mia scelta è invece frutto di consapevolezza, un appropriazione che pone all’attenzione qualcosa che forse è unico, non nel senso che sia l’unico legno traforato, ma unico per forma e tipologia di traforazione. Per me l’oggetto è anche esteticamente bello. Dunque il ready made non deve necessariamente essere sgradevole o esprimere qualcosa di provocatorio. Basti dire che il più diffuso ready made è la fotografia. Quando scattiamo una fotografia non creiamo nulla, ci limitiamo a registrare qualcosa di esistente. Il rischio, visto l’abbruttimento generalizzato, è che solo le cose brutte, pornografiche, oscene, attraggono l’ attenzione di chi punta l’obiettivo. Un tramonto è qualcosa di naturale, non è un’opera d’arte, lo può diventare quando è dipinto o fotografato. E’ un errore a mio parere considerarlo banale, scontato, in realtà non esiste un tramonto identico ad un altro. Dobbiamo tentare di tenere desta la nostra sensibilità anche per le cose semplici, evitare l’ottusa ricerca dell’”originale” a tutti costi. La nostra osservazione non può per così dire, galleggiare, perdere l’attenzione per i dettagli, il particolare che fa la differenza. La nostra visione è come la nostra vita, può essere impoverita o arricchita dalla nostra sensibilità, la stessa che ci consente di scorgere e apprezzare un profumo, il sorriso di una persona, la poesia di una strada deserta.
L’escatologia dell’arte è certificata anche dalla deriva nominalistica delle mostre. A Torino, in parallelo allo svolgimento della Fiera dell’Arte denominata Artissima, si è svolta una mostra, supportata da Enti Locali ( in questo caso i soldi si trovano) Enti pubblici e Banche, dal titolo “Shit and Die” (Caga e muori). Cifra della sempre più raffinata intelligenza di molti produttori d’arte contemporanea e loro sostenitori. Ovviamente la mostra ha avuto un grande impatto mediatico, con file all’ingresso e molti visitatori ansiosi di farsi stampare in fronte il titolo della mostra dall’onnipresente Cattelan.Tenuto conto che la mostra si è svolta in un palazzo storico al centro di Torino, Palazzo Cavour, e si è potuta svolgere grazie all’appoggio degli Enti Locali, abbiamo una chiara visione dei tempi in cui viviamo. Si cercherebbe invano un articolo di critica alla mostra, o più in generale a certe derive di Artissima. Per critica s’intende, come dice la parola stessa, non elogi, ma la messa in rilievo di carenze e distonie. Gli elogi in qualche caso sono declinati con derive politiche e di campanile. La politica e mercato innanzitutto. Tuttavia anche l’entusiasmo, reale o simulato, non cancella lo stato non proprio felice dell’arte contemporanea. Il pensiero unico, mascherato di progressismo domina anche la scena dell’arte. Da notare il crescente numero di artisti che realizzano opere consistenti in scritte su lastre di pietra o marmo, del tipo che si vedono nei cimiteri, forse inconscio riferimento alla morte dell’arte. Anche la mostra su citata include il richiamo alla morte nel titolo. Dovremmo aspettarci presto degli happening direttamente nei cimiteri dove le lapidi sono numerose, quasi sempre con scritte più intelligenti di quelle che appaiono sulle lastre di marmo esposte nelle gallerie. Di certo diventa difficile ogni discorso sull’arte: nullum est iam dictum quod sit dictum prius.
Vi è, o forse dovremmo dire vi era, uno stretto nesso tra arte e magia. Fin dalle prime pitture di Altamira, Lascaux, Chavet, come in altri siti, le rappresentazioni di animali e forme umane avevano carattere evocativo e magico. Come per il mito, anche la magia tramigrò nelle rappresentazioni religiose. Molte religioni proibivano la rappresentazione della divinità. L’ebraismo con la Torah, Antico e Nuovo Testamento, il Corano vietavano espressamente qualunque rappresentazione dell’aspetto di Dio. La ragione appare ovvia, come può un sopranaturale essere rappresentato in sembianze umane? Il concilio di Hieria, il concilio di Nicea, il concilio di Elvira dibatterono la questione. La chiesa Romana decise di accordare la possibilità di rappresentare dio nella pittura e nella scultura. A questa decisioni dobbiamo le opere dei grandi maestri prima e dopo il Rinascimento. Nel libro di Keith Thomas: “ La religione e il declino della magia” sono riportati numerosi episodi nei quali le immagini evocative assumono grande rilievo. La chiesa post riforma mostrò assoluta continuità con quella medioevale ricca di rappresentazioni religiose. Anche la letteratura, assai prima del Cinquecento , ha una storia intricata che gli studiosi sono ancora ben lungi dall’aver dipanato. La rappresentazione pittorica faceva ricorso a un elaborato simbolismo che aveva per oggetto gli animali. Non è certo possibile in questo scritto affrontare i complessi intrecci tra magia, religione e pittura. Ci limiteremo a qualche accenno. L’Apocalisse ricorreva al simbolismo di Aquile e Draghi. Nella Historia Regum Brittanniae di Goffredo Di Mommouth vengono citati il Dragho Bianco e il Drago Rosso, il Cinghiale di Cornovaglia. Le pitture pre e post rinascimentali erano ricche di richiami simbolici ad animali reali e immaginari come l’Unicorno. La magia non si limitava all’utilizzo simbolico di animali, ma aveva tutta un serie di riti, utilizzo di erbe e formule magiche, fino alla forma della pietra filosofale che avrebbe consentito la produzione di oro. In questo contesto l’arte ha una parte significativa, come si evince dagli straordinari codici miniati che narravano storie tra realtà a immaginazione. L’argomento è ricco di implicazione e varrà la pena di ritornare a descrivere i processi, i riti di passaggio tra la misteriosa epoca dei maghi alla modernità degli scienziati. Di certo è semplicistico relegare a pura superstizione tutto il sapere che consisteva nella conoscenza e l’uso delle erbe e riti propiziatori che se non aveva riscontri scientifici certamente avevano un forte impatto psicologico, quello che oggi definiamo effetto placebo. Ritorneremo sull’argomento che si presta a interessanti considerazione di come, in nome delle scienza e del progresso, si sia gettata l’acqua sporca della superstizione con il bambino delle conoscenze dell’uso delle erbe e di tutte le forme di cure arcaiche alcune delle quali sono state riesumate e oggi fanno parte di quella che viene definita medicina eretica.
La folla solitaria.
Dovendo parlare d’arte inevitabilmente si parla di politica. Perché l’arte è politica. Lo è nella forma subdola del disimpegno, lo è nella scelta della forma propria del linguaggio dell’arte. Questo accade in modo più evidente oggi. Nell’attuale società capitalistica, gli esseri umani vivono in un mondo reificato, il cui dinamismo disgrega tutti gli elementi intermedi tra individui e società, quindi riduce tutte le relazioni a mera astrazione e/o funzionalità economica, sessuale, di opportunismo pragmatico. Tutto condizionato dal cieco entusiasmo per il progresso tecnico. Il sociologo americano David Riesman ha coniato un felice neologismo che descrive la situazione odierna, nel titolo del suo libro “La folla solitaria” (1956). Infatti da un lato tutta la vita dell’individuo, dal lavoro al tempo libero, appare dominata da totale astrazione. Nel campo culturale la nostra epoca si distingue dalla precedente per l’alto grado di inconsapevolezza, che non elimina, anzi accentua le conseguenze del nostro agire. La moda, le forme di fruizione del tempo libero sono condizionate da comportamenti indotti, la cui cifra è il consumo e l’edonismo. Di recente una nota rivista di “cultura” della sinistra italiana ha avviato un dibattito sulla sessualità femminile lasciando ampio spazio alle opinioni delle donne. Né è venuto fuori un quadro francamente desolante. Il tema dominante è la ricerca del piacere. Anche il sesso, di fatto, è vissuto come pratica “collettiva”, disumanizzata. Radio, tv, cinema, Internet, sono strumenti che si prestano all’esibizione, trionfo dell’apparenza. Il contrasto tra generi è in molti casi un comodo alibi. La pubblicità si rivolge alle masse adottando i criteri dell’arte: estetica del desiderio. Fa leva sulle inclinazioni delle masse, sulle peggiori, più volgari propensioni. Il paradosso è che, si sublima il desiderio suggerendo che attraverso l’uso del tal prodotto, l’acquisto del tale oggetto, ci si distingue dalla massa. In realtà si favorisce anonimato consumistico, si induce all’uso puramente tecnologico anche dell’apparato mentale, con totale scetticismo verso ogni forma di ideologia e di credenza, che non sia l’edonismo hic et nunc. La natura astratta del desiderio che non s’identifica con un ben definito soggetto, semmai è il soggetto che deve corrispondere al desiderio. Siamo ben oltre l’abisso intellettuale e morale. Lo conferma il dibattito sulla sessualità femminile sopra citato. Capita che in queste circostanze l’atteggiamento scettico-critico si trasformi in panico, allora ci si aggrappa a qualsiasi appiglio in mancanza del quale si affonda inesorabilmente. La cronaca ce ne dà conferma ogni giorno, l’arte lo certifica attraverso la totale vacuità, mancanza di senso delle opere. Dietro a questi fenomeni sociali emerge il problema, acutamente evidenziato da Tolstoj, della vita insensata. Max Weber spiegava lo stato d’animo dell’individuo contemporaneo, la sua fragilità psicologica che lo induce, dopo avere abbandonata la religione, a prestare fede all’astrologia come surrogato. Prigioniero di un cerchio chiuso senza uscita, come il leggendario Sisifo. Il confronto con Sisifo è autentico, in senso esistenzialistico, risale infatti a Camus. Il vero profeta dello stato in cui l’uomo contemporaneo si è venuto a trovare è Kierkegaard, che vide con lucida chiaroveggenza l’inevitabile esito del nichilismo materialistico della borghesia. Oggi non esiste distinzione tra classi e ideologie accomunati dall’ansia di possesso che alcuni soddisfano, mentre altri sono privi del necessario, ma non per questo cessano di desiderare il superfluo, la droga, l’alcol, il sesso occasionale. Miti e riti sono omologati per tutte le classi, inclusi gli intellettuali assorti più a giustificare i propri vizi, che a suggerire una via d’uscita dal baratro in cui ci troviamo.