Goalkeeper, 1976
La “felicità” è uno dei temi affrontati dalla filosofia, uno dei tanti che non ha trovato una definizione, un senso, che possa essere condiviso. L’arte evidenzia la difficoltà di esprimere un’ idea di felicità perché la raffigurazione è necessariamente legata al corpo umano con i suoi limiti. L’impossibilità di definire ed esprimere la felicità consiste nella frammentarietà temporale. Il “ carpe diem” di Orazio. Per Schopenhauer la felicità è negativa. E’ l’idea già espressa da Erodoto: “ Non c’è mai stato al mondo uomo che non si sia augurato di non vedere l’indomani”. Vale anche per i grandi intellettuali l’affermazione: “Quot capita, tot sententiae” . C’è chi, come Locke , lega la felicità al rispetto delle regole morali all’interno del circolo delle relazioni.L’amante che tradisce svilisce se stessa e offende l’amato. La più semplice definizione della felicità è “non aver bisogno di nulla se non di se stessi”. Il problema è che per raggiungere questo stadio di autonomia sarebbe necessario possedere una notevole quantità di stoicismo o di cinismo. Diogene arringava la folla gridando “Ehi, uomini!”, e , all’accorrere di molti, li respinge sprezzante “Uomini chiamai, non canaglie” . Epitteto considerava Diogene, insieme a Socrate, il suo modello di riferimento. Epicuro insegnava che il piacere è ridotto a ben piccola cosa, ma di questa piccola cosa finiamo per essere schiavi. Per crearsi un alibi gli umani hanno inventato la parole “amore” che, quando si riferisce al rapporto tra i sessi, è un altro modo di definire l’attrazione sessuale. E’ di pochi l’incapacità di resistere alle pulsioni del corpo. In non poche donne vi è un aumento in misura morbosa dell’istinto sessuale che si configura come “ninfomania”. Gassendi sostiene a chiare lettere che l’amore è connesso strutturalmente al piacere. E’ infatti le teorie di Platone sull’amore, il cosiddetto “amore platonico” , non hanno trovato e non trovano molto seguito. Non diversa sorte ebbero le teorie di Plotino secondo cui : “ Lo stato felice consiste esclusivamente nella capacità contemplativa”. Non è chiaro come e perché i filosofi costruiscono teorie che sembrano dimenticare che l’uomo è un animale generalmente incapace di tenere a bada i propri impulsi, se si escludono rarissime eccezioni di persone che hanno raggiunto il dominio di se stessi. Senza indulgere al pessimismo di Schopenhauer , non c’è dubbio che la felicità è per tutti gli umani molto più rara di quanto lo siano i momenti di sconforto e di dolore. Alla radice c’è sicuramente l’incapacità di auto dominio, di indirizzare le proprie energie mentali verso obiettivi capaci di dare senso alla propria vita. Se è vero che l’arte non riesce a raffigurare la felicità, è altrettanto vero che le biografie degli artisti sono le narrazioni di incontinenza e squilibrio tali da spiegare perché la felicità non è compagna dell’arte.
I libri di filosofia possono essere interpretati attraverso la metafora di cercatori di oro sulle rive dei fiumi i quali devono raccogliere una grande quantità di ghiaia e setacciarla per ottenere una pagliuzza di oro. Schopenhauer, ad esempio, è prolisso, i suoi ragionamenti assumono l’aspetto di opinioni non supportate da una logica sufficientemente neutrale. Quando la filosofia affronta il tema dell’arte cade in una serie di contraddizioni, a cominciare dal fatto che riveste di parole opere che dovrebbero avere il potere di comunicare autonomamente. Inoltre, quando Schopenhauer affronta il tema dell’arte è palesemente condizionato dalla passione per la cultura indiana. Egli usa l’oggetto artistico come pretesto per considerazioni estranee al reale mondo dell’arte, pone un enfasi eccessiva nell’attribuire all’opera d’arte la capacità di influenzare il pensiero, anche se si affretta a precisare che ciò vale solo per i grandi artisti. Le sue argomentazioni rientrano nella annosa diatriba sul valore e significato dell’arte, di conseguenza cosa si deve intendere per grande arista, o artista di valore. Se fino all’inizio dell’800 vi era una certa convergenza di critici e intellettuali nella condivisione circa la natura dell’arte, a partire dalla fine dell’800 la questione si è fatta problematica. Lo sperticato elogio della bellezza che sarebbe espressa nelle opere a cui indulgono critica e filosofia dell’arte nell’epoca pre- avanguardie, suona condanna senza appello della quasi totalità dell’arte contemporanea. Gli artisti contemporanei rinunciano programmaticamente alla bellezza estetica, giustificano tale scelta con teorie spurie approntate dai filosofi dell’arte. In altri casi la declinazione formale dell’arte si affida a procedimenti concettuali, quasi che l’essenza dell’arte consista nel sostituirsi alla filosofia. La rinuncia alla contemplazione implica il porsi nei confronti del paesaggio e della natura in generale in atteggiamento critico, tale atteggiamento finisce per riverberarsi anche nella osservazione dell’essere umano del quale vengono messi in rilievo gli aspetti deteriori o attraverso happening, specie sul cotè femminile, ma anche nella pittura. Basti osservare le opere di Francis Bacon e Lucian Freud. Quella che un tempo era la ricerca del colore attraverso il quale si esprimeva il significato, oggi non ha più corso, la materialità dell’arte consiste anche nell’approssimazione dei dettagli. Per esempio prima del 1875 vi era una certa resistenza ad usare il viola dei glicini che appare solo con gli impressionisti.
Ogni religione ha una propria arte. E’ significativo che la comune radice, la magia, ispiri forme, per così dire spontaneamente , nelle quali è contenuto ed espresso il pensiero religioso la cui più o meno raffinata forma riflette la complessità normativa della credenza che la ispira. Vediamo le forme terrificanti della religione dei Maya che richiama il sangue dei sacrifici umani, riti che per altro sono frequenti in molte religioni, incluso il cristianesimo che però li ha sublimati nella eucarestia. Le religioni e culture animistiche dell’Africa si affidano a rozzi totem sul crinale tra magia e religione. Tali rappresentazioni simboliche, alle quali si richiama anche Freud in “Totem e tabù” ,sono state riprese tra la fine dell’’800 e l’inizio del ‘900 da molta arte europea, in primis il cubismo. Il richiamo ai Totem delle civiltà primitive africane, costituisce il velleitario tentativo di un ritorno al passato presentato come un’innovazione. Una delle molte contraddizione dell’arte europea che si definisce di avanguardia, mentre in realtà è reazionaria perché la ricerca della purezza primitiva della forma si attua in un contesto nel quale mancano le motivazioni di fondo, la genuinità non mediata che sfocia nell’impulso creativo. L’antica saggezza della civiltà indiana si esprime con un arte prevalentemente scultorea. Grandi sculture di pietra, figure statiche immerse nella meditazione. L’Islam vieta la riproduzione della figura umana. L’arte islamica è costituita per lo più da un raffinato segno astratto, realizzato spesso da mani femminili. Il mosaico è una delle espressioni artistiche diffuse nella civiltà islamica. Nella cultura religiosa cristiana il conflitto tra iconoclasti e tradizionalisti durò secoli. Venne affrontato nel concilio di Hieria. Nel 769 Papa Stefano III dichiarò la liceità della produzione dell’immagine religiosa. Senza quella pronuncia forse non ci sarebbe stato il Rinascimento italiano durante il quale l’immagine religiosa fu usata dalla Chiesa anche in funzione didattica, considerato il gran numero di analfabeti, la storia ed elegia dei santi tramite le immagini è di grande fascino, ispirata anche dalla cultura filosofica e storica. La tesi, sostenuta tra gli altri da Schopenhauer, secondo la quale l’arte si basa sempre sull’ intuizione, mai sul concetto, ha aperto la strada verso il pregiudizio in base al quale l’arte non si giudica essendo libera espressione dell’artista. Qui si aprirebbe un discorso complesso sulla definizione, prima che dell’arte del suo produttore, l’artista. Tema delicato che forse è impossibile chiarire perché attiene alla indefinibile sensibilità dei singoli. E’ come stabilire cosa abbiano in comune un bocciolo di rosa che trema per il peso di una goccia di rugiada con la mano che ferma l’attimo magico. Oggi questo momento magico è facilmente riproducibile dalla tecnica.
Raffaello ci ha rappresentato in un dipinto simbolico il processo originario dell’artista. Nell’opera “Trasfigurazione”, la metà inferiore con il ragazzo ossesso, gli uomini in preda alla disperazione lo sostengono, gli smarriti e angosciati discepoli, ci mostranp il rispecchiarsi dell’eterno dolore originario , dell’unico fondamento del mondo: l’illusione. Egli rappresenta un riflesso del contrasto tra mondo “reale” e illusione. L’artista non interpreta il mondo, lo crea. Egli è strumento della trasformazione della realtà. Per realizzare il passaggio tra l’immanente e il trascendente deve sottostare a un etica della forma, esigenza primaria del conosci te stesso. L’estetica moderna è immersa nella soggettività. L’artista soggettivo è un pessimo artista. Senza oggettività, senza pura e disinteressata contemplazione del reale che deve essere trasformato, non sarà mai possibile una vera produzione artistica degna di questo nome. Schopenhauer suddivide le arti tra oggettive e soggettive. Secondo il filosofo il soggettivo non appartiene all’arte. E’ necessario che l’artista si liberi dal solipsismo creativo e diventi un medium attraverso il quale la realtà è assorbita e trasformata. Dunque la tecnica non può essere arte, il ready made non può essere arte. La dignità estetica che costituisce l’arte deve essere preceduta da una epistemologia capace di concretizzare l’idealità del pensiero in forma: l’eidos. La nostra epoca si crede superiore, usa lo sprezzante epiteto di “preudoidealismo”, rifiuta ogni forma di spiritualità, si crogiola nella propria inutile abbondanza. L’odierna accettazione dell’estetico industriale costituisce un ossimoro concettuale. Nonostante il profluvio di testi di filosofia e critica d’arte, nessuno è ancora riuscito a definire con precisione il sostantivo arte sviluppando un ragionamento semplice e chiaro sul piano della realtà sottratta a intuizioni ingannevoli. Questo perché la semplicità è un concetto complesso.
Il piacere socratico della conoscenza trasmette un’illusione diffusa di poter guarire l’eterna difficoltà dell’esistenza, l’arte dovrebbe aiutare con un seducente velo di bellezza. Purtroppo in questo nostro tempo l’arte è degenerata fin dalle fondamenta. C’è stato un tentativo di coraggiosa saggezza da parte di Kant e Schopenhauer che, senza indulgere all’ottimismo, hanno gettato una tenue luce sul mondo “Come volontà e rappresentazione”.
L’arte come consolazione metafisica si lascia provvisoriamente andare, come Mefistofele fa con le Lamie tentatrici, ma si arena in una generale angustia fino a diventare illogica nella sua stessa contraddittorietà perché non ha più nessuna visione. L’artista, insterilito dalla materialità, rinuncia a creare, si affida a precostituite virtualità tecniche, caricature della realtà.
Il deserto del pensiero incapace di imprimere energia all’esistenza banalizzata in frammentato edonismo. L’arte in origine nasce per attutire la tragicità della vita. La convinzione di avere conquistato la natura è la cifra della nostra Era che confonde conquista con distruzione. L’inutilità dell’ansia di ricostruire il mondo è descritta con una metafora da Eraclito l’oscuro, descrive un fanciullo che giocando disponga pietre qua e là, innalzi mucchi di sabbia per subito dopo disperdere tutto.
Parafrase dell’eterna ripetizione della cultura e della storia anticipata dalle profezie di Socrate sull’arte, riprese dal suo allievo Platone che per poter essere sue discepolo distrusse le sue poesie.
Una massima ispirava la filosofia socratica: “ La virtù è il sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice”. Ora è chiara, per chi la voglia vedere, la ragione dell’inutilità dell’arte contemporanea, come di gran parte dell’esistenza dei più.
In “Nascita della tragedia” Nietzsche scrive: “Io sono convinto dell’arte come compito più alto della vera metafisica di questa vita” . In realtà egli si riferiva a un arte che ha cessato di esistere con l’avvento delle avanguardie. Fu un atto di estrema dabbenaggine e insieme di presunzione pretendere di cancellare l’epistemologia dell’arte. Pierre Hadot sottolinea come l’abbandono della trascendenza a favore della totale immanenza abbia amputato la parte creativa degli esseri umani. Il modello etico dei contemporanei si riduce a una estetica dell’esistenza, una forma di dandismo di massa incolto e tutto sommato triste. Gli antichi consideravano apollinea l’arte della scultura e più in generale figurativa. L’arte musicale era invece ritenuta dionisiaca. Appare ovvio che quando l’arte si affida ai ready made, per ciò stesso rinuncia a creare a favore del recuperare attraverso la parola i resti della produzione di massa. Schopenhauer indica come segno distintivo dell’artista l’attitudine di rendere naturale il sogno traducendolo in forma. Apollo, come dio di tutte la capacità figurative, e insieme divinanti, corrisponde alla sua radice etimologica che significa “splendente”, la divinità della luce, domina anche la bella parvenza del mondo greco e forse fornisce l’estro a Zeusi, Parrassio e gli altri geni dell’arte che hanno lasciato la loro impronta in una civiltà che stata lievito dell’occidente prima dell’avvento dei Lumi. Forse l’Arcadia, vissuta o immaginata, è stata solo uno sprazzo di luce subito spento dalla nostra ingordigia di esistere. Un’antica leggenda narra che re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dionisio. Quando lo raggiunse il re domando quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Dopo un lungo silenzio Sileno sbottò in un sorriso beffardo e disse: Siete una stirpe miserabile ed effimera, figli del caso e della pena, meglio per voi sarebbe stato non essere mai nati. Oggi Apollo, Dionisio, Sileno, tutta la schiera di dei inventati per consolarci nel buio esistenziale del quale non sappiamo attribuire un senso, sono stati cancellati, così il pensiero creativo e la sapienza della filosofia umanistica che ha tentato inutilmente di raddrizzare il legno storto dell’umanità.
Il tema della iconoclastia ha una lunga storia che risale ai tempi di Costantino e Silvestro. Nell’impero bizantino nei secoli ottavo e nono ci fu una forte opposizione all’uso delle immagini,soprattutto nel culto religioso. E’ noto che la religione islamica non permette la raffigurazione del corpo umano e più in generale delle immagini sacre. Non c’è dubbio che se avessero prevalso gli iconoclasti non avremmo avuto il Rinascimento così come lo conosciamo. In ogni caso la diatriba sulla iconoclastia coinvolse anche i Lumi, Diderot scrisse; “ Amico mio se amiamo la verità più che le Belle Arti preghiamo Iddio per gli iconoclasti”. Tuttavia nel 1° volume della Encyclopédie che porta la data 1751, nell’articolo Arts redatto da Diderot vi è una lunga appassionata argomentazione sulle attività liberali, ma alla pittura, scultura, architettura è dedicato poco spazio. In un volume di supplemento, edito nel 1776 viene pubblicato un lungo articolo Beaux Arts, dello svizzero Sulzer, autore di “Teoria generale delle Belle Arti”, in quattro volumi. Nel suo articolo lo studioso elvetico affronta il tema sociale dell’arte anticipando di tre secoli Hauser, egli attribuisce all’arte una funzione politica, l’uso dell’immagine in funzione di autopromozione sociale, per ciò stesso esprime riserva sul tipo di sviluppo iniziato con il mercato dell’arte a partire dai Paesi Bassi. E proprio nella sua storia sulla secessione dei Paesi Bassi che Schiller tenta di attribuire alla plebe la responsabilità dell’iconoclastia per allontanare la responsabilità della Borghesia. Per Rousseau la pittura e la scultura erano strumenti di corruzioni, quasi un Talebano avantilettera. E’ sorprendente come tra i filosofi fosse acuta la percezione del possibile cattivo uso dell’arte, una sorta di profetica visione di ciò che sarebbe puntualmente accaduto. Paul Heinrich Dietrich d’Holbach lanciava un monito: “ Sotto un cattivo governo i capolavori dell’arte servono solo a decorare il sarcofago della nazione”. Goethe e Goya si preoccupano dell’ istruzione degli artisti e della loro capacità di rappresentare in forme incisive gli aspetti sociali e i comportamenti del potere, cosa che lo stesso Goya realizzò nelle sue incisioni.
Nella parte de “L’Ideologia tedesca” in cui Karl Marx dà la propria interpretazione della filosofia di Feuerbach e cita Hegel.
A pagina 13 edizione del 1967 Editori Riuniti, Marx scrive: “ Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza”. Perché la vita non è avulsa dalla realtà, ma piuttosto un percorso attraverso il quale l’essere umano può attuare un processo di crescita culturale e morale.
A pagina 151 della stessa opera e stessa edizione, scrive: “ Il negroidismo è concepito come “il fanciullo”, perché Hegel (Filosofia della storia pag, 89 dice: “L’Africa è il paese dell’infanzia della storia”. “Nella determinazione dello spirito africano (negro) dobbiamo rinunciare del tutto alla categoria dell’universalità”, ancora pag. 90 ossia il fanciullo e il negro pur avendo dei pensieri non hanno ancora il pensiero.
“Nei negri la coscienza non è ancora arrivata a una ferma obiettività, come per esempio Dio, la legge, in cui l’uomo avrebbe l’intuizione della propria essenza”…..”cosicchè manca del tutto la conoscenza dell’essere assoluto”.
Il negro rappresenta l’uomo naturale allo stato libero. Nel Medioevo i filosofi della Patristica e della Scolastica dibattevano se i neri e le donne avessero un’anima. Accennare al tema oggi non è politically correct, quindi si è sbrigativamente considerati razzisti e reazionari. In realtà la questione è più ampia e complessa perché impone una domanda: “Perché personaggi dotati di grande cultura, si sono posti tale problema? Oggi viviamo in una democrazia formale nella quale la legge è costituita da codicilli e cavilli di vario genere, alcuni dei quali erano già stati messi in luce da Francois Rabelais nel suo capolavoro “Gargantua e Pantagruele”. Nel frattempo la situazione etica generale è di gran lunga peggiorata. Perché il razzismo è soprattutto rivolto verso i neri? Perché in ogni paese, Africa compresa, i neri costituiscono un problema? Perché in parallelo con la crescita esponenziale della visibilità e potere femminile la società subisce un tracollo etico? Perché la maggioranza del mondo femminile si schiera sempre a favore di neri e omosessuali? Perché nonostante le indubbie conquiste femminili, la prostituzione e la pornografia non sono diminuite ma di gran lunga aumentate? Perchè anche nel mondo dell’arte le donne hanno dato ampio spazio alla esposizione del corpo e alla sessualità esplicita ed esibita? Tutto avviene con la complicità di una classe politica ignorante e corrotta. Restano domande in attesa di risposte, non di slogan osceni, cortei e polemiche senza costrutto.
Protagonista della storia non è stata la classe operaia o la grande borghesia, ma piuttosto i piccoli borghesi. Nel campo dell’arte come della letteratura e nella politica. Hegel e Kar Marx esprimono un giudizio negativo sulla piccola borghesia. J.J. Rosseau fece della volontà del singolo individuo la base della società, egli era figlio di orologiaio. Altri intellettuali dell’Epoca erano provenienti dal ceto piccolo borghese, Alembert era un trovatello allevato da un vetraio. Harpe allevato in un istituto di carità , Marmontel figlio di un sarto del villaggio, Chamfort era un trovatello, Beaumarchais era anch’egli figlio di un orologiaio. Il “Contratto sociale”di Rosseau non ha mai trovato applicazione nel governo di nessun paese, al più i suoi testi hanno ispirato talune tendenze sociali d’impronta pedagogica. “Emilio” e “La nuova Eloisa”, la cui carica escatologica si rivelò modesta. Dai tempi dell’antica Grecia all’800, l’arte fu appannaggio della piccola borghesia. Mentre letteratura e musica era prodotti esclusivamente del pensiero, l’arte comportava un lavoro manuale, come tale rifiutato da nobili e alto borghesi. Come scrive Max Weber in “Storia economica e sociale dell’antichità”, gli artisti in Grecia erano considerati alla stregua di medici, cantori indovini, appellati con il termine demiourgòs. La posizione sociale e la considerazione degli artisti prese l’abbrivio con l’avvento del mercato dell’arte che ebbe origine nei Paesi Bassi. La maggior parte degli artisti non ricavava di che vivere solo con la pittura. Gli stenti di Rembrandt e di Hals sono un fenomeno prodotto dall’anarchia economica verificatasi all’inizio dal mercato dell’arte. Van Goyen per vivere commerciava in tulipani, Hobblema era esattore, van de Velde aveva un negozio di telerie, Jan Steen Aert van de Velde erano bettolieri. In Italia il mercato dell’arte in pratica non esisteva ancora, gli artisti lavoravano per lo più su commissione. Tutti comunque appartenevano alla piccola borghesia sempre in fermento per la propria precaria condizione sociale ed economica, ma incapaci di prendere davvero posizione fino a quando la Rivoluzione francese del 1789 dette un forte scossone alla società del tempo e scatenò l’ira di una massa indistinta che sfogò nella violenza le proprie rivalse e il proprio odio. Fu un momento relativamente breve perché, prima Napoleone, poi la restaurazione ricrearono le condizioni di dominio delle èlite. Prontamente gli artisti dettero vita allo stile Napoleonico, detto anche Neo Classico. Jacques-Louis David e Antonio Canova furono tra i principali esponenti di quella forma d’arte che precede il Romanticismo. Abbiamo dunque la conferma di come l’arte segua i tempi e li rappresenti quasi sempre in omaggio al potere. Oggi viviamo in una società che Zygmunt Bauman ha definito “liquida”, gli artisti sono soggetti a una sorta di sbandamento socio- culturale, pertanto si limitano a seguire il mainstreem, sostantivo che significa “corrente principale” , detto in altri termini un conformismo che pretende di essere progressista.
Secondo Aristotele è corretto chiamare la filosofia “scienza della verità”. Egli attua la distinzione tra filosofia teoretica il cui fine è verità, e la filosofia pratica volta a indirizzare le azioni. Molta filosofia moderna è impegnata a demolire lo stesso concetto di verità, a partire dal pensiero debole, fino a “A cosa serve la verità?” di Pascal Engel e Richard Rorty (2005). Per superare la difficoltà di trovare argomentazioni convincenti sul piano filosofico la scelta è stata tagliare il nodo, negare l’esistenza stessa della verità. Il pensiero debole è andato oltre, ha negato ogni fondamento alle ragione etica che è alla base della verità. L’insipienza della cultura contemporanea, ben salda nella propria dotta ignoranza, si comporta come i pipistrelli i quali vedono meglio nel buio e ogni barlume di luce li disturba. Molti di questi soloni, cantori della libertà, pensano e agiscono pro domo Cicero, usano cioè la filosofia per giustificare le proprie perversione diventano tanto meno esecrabili quando si cancellano ragioni etiche e veritative. I filosofi dovrebbero stabilire cosa costituisce un valore di riferimento sul quale si impernia l’intera struttura di relazioni umane, tanto più utile oggi che l’umanità è avviata a raggiungere i 10 miliardi di persone nell’arco di pochi anni. Il principio elementare di distinzione tra vero e falso inquinato da teorie ancipiti la cui giustificazione sarebbe sottrarsi ai dogmi, mentre in realtà lo scopo è sottrarsi al “dogma” della ragione logica. In questo modo tutte la vacche sono bige, ci si trova liberi nella vasta prateria della libertà. In base a questo arruffato noema si attua un processo di ectesi nel quale la ragione non ha più voce. La libertà è un falso mito e le illusioni che lo nutrono collidono con natura e storia. Gioca a favore dei creatori di questi pleonasmi concettuali, il fatto che la storia ha tempi lunghi, anche se già ora si profilano le prime conseguenze del malinteso mito di libertà, nei tempi lunghi la società umana sarà sempre meno gestibile. Dopo il progressivo abbandono di ogni riferimento alla natura, seguirà una progressiva disumanizzazione sotto specie scientifica come ipotizzato da Susan Greenfield in “Gente di domani” (2003). “Domani, poi domani e domani,/così il tempo striscia via, a piccoli passi, da un giorno all’altro/ fino all’ultima sillaba del ricordo del tempo/ e tutti i nostri ieri hanno rischiarato gli sciocchi/ la vita verso la polvere della morte…” (Monologo di Macbeth di William Shakespeare).