Goalkeeper, 1976
Quando nel 1918 venne pubblicato: “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler, poteva sembrare una profezia azzardata. In realtà abbiamo assistito, e assistiamo, a una serie di fatti che confermano pienamente quella che era l’idea di Spengler. L’occidente sembra incapace di riprendere un percorso sano di una civiltà che, come la storia dimostra, non si è mai interamente realizzata nella sua modernità, anche se un tempo si immaginava felice. E’ chiaro che in ragione della natura dell’essere umano, non può esistere una civiltà compiutamente equa solidale della quale farneticano, spesso in malafede, i politici. L’argomento al quale vorrei accennare brevemente è la ragione per cui Spengler ha scritto “ Il tramonto dell’Occidente”, in un periodo in cui si percepivano gli scricchiolii sempre più marcati anche nel campo della cultura. Si profilavano le prime avanguardie distruttive. Qualcuno ha sostenuto che i DADA nutrivano una sorta di odio per l’arte. Probabilmente era vero, a mio avviso l’azione delle avanguardie, non solo DADA, è stato soprattutto un atto di presunzione a cui non corrispondeva una cultura adeguata. Einstein aveva, si suppone, un docente, un maestro che l’ha guidato nei primi passi del sapere. Seguendo gli insegnamenti del suo maestro ha poi fatto passi avanti e lo ha di gran lunga superato. Le avanguardie hanno preteso di ignorare i maestri che le avevano precedute. La stessa presunzione di “essere artisti” era tutta da dimostrare. Hanno agito come se si trovassero al grado zero dell’arte. In realtà sono state proprio le avanguardie a portare l’arte al grado zero adottando una serie di espedienti attuabili a prescindere dalle specifiche competenze, che avrebbero dovute essere apprese; non solo le competenze di carattere per così dire tecnico, ma la stessa base culturale indispensabile per la realizzazione di opere che abbiano un significato. Tutto ciò avrebbe dovuto essere appreso. Come scrive Jean Francois Lyotard in “La condizione postmoderna”. “Non si insegna ciò che non si sa” . Più generalmente non si produce nulla senza sapere. Ecco quindi che se ad un certo punto gli artisti hanno supposto di poter fare a meno della conoscenza tecnica e umanistica che era la base della produzione artistica. Gli esiti che oggi constatiamo erano prevedibili.
Opere di Banksy – Senza titolo – Art Street
Raffaello Sanzio da Urbino in una lettera a Baldassare Castiglione scrive:…”io mi servo di certa idea che mi viene in mente. Se questa ha in sé alcuna eccellenza d’arte , io non so: ben mi affatico ad averla”. Con Raffaello si viene delineando un’idea che il Rinascimento aveva coltivato, e poi finito per dirottare nella ricerca di immagini umanistiche della prospettiva ideale. Nella “Scuola di Atene” , Raffaello raffigura Aristotele che con la mano destra indica la Terra , in contrapposizione a Platone che indica il cielo, e nella mano sinistra tiene un volume sul cui dorso spicca la scritta “ETICA”. Era questa la cultura degli artisti del Rinascimento che hanno creato la prospettiva, la quale non era solo una escogitazione geometrica, ma il senso stesso che orientava la pittura nella ricerca di regole espressive che sono alla base dei capolavori che conosciamo. La bellezza emblematica , sostenuta da una forte convinzione tra arte, letteratura e filosofia., Ut pictura poêsis che culminerà nel Seicento, ancora su quell’esempio con Pussin. “Universalia sunt ante rem”. Nel 1506 Zorzi di Castelfranco Veneto, detto il Giorgione dipinse “ I Tre filosofi” , presumibile un richiamo alla tre filosofie teorizzate da Aristotele, anche se l’arcano non è ancora stato risolto dagli studiosi dell’arte. Il tema è affrontato da Gombrich commentando il perfetto simbolismo contenuto nelle opere degli artisti rinascimentali. Anche Wimckelmann nel 1775 affronta l’argomento nei “Pensieri sull’imitazione dell’arte nella pittura e nella scultura”. Va da se che affrontare questi temi relativi all’arte quando costituiva la fusione tra cultura, immaginazione e memoria, paragonare questo vertice di sensibilità artistica a uno dei tanti imbrattatele come il tedesco, Gerhard Richter, il quale, sull’onda del suo successo commerciale, pretende di confrontarsi con Tiziano Vecellio, è qualcosa che intristisce. Soprattutto è difficilmente comprensibile come la cultura artistica italiana abbia abbandonato la propria storia per celebrare in modo acritico una certa idea di contemporaneità.
Opera di Salvatore Garau “Rosso rotto”, 2018
Dopo 25 secoli resta comunque valida la domanda: “A cosa serve la filosofia?”. Paradossale che la risposta possa venire solo la filosofia. Chi altri ha interesse a dare una risposta, e riproporre la tesi che solo la filosofia ci aiuta ad esercitare e liberare la mente. E’ davvero così? La filosofia concorre a dissipare i miti, tenere a bada i turbamenti dell’anima, consolidare la potenza di un pensiero chiarificatore. Ma questo è possibile solo se, e solo se, riesce a purgare se stessa e dare lucidità al proprio sguardo sul mondo, sulla natura. In “De rerum natura” Lucrezio sostiene che la natura si oppone al mito. Nel descrivere la storia dell’umanità, Lucrezio ci presenta una sorta di legge di compensazione indicando il mito come fonte delle molte difficoltà dell’uomo nell’affrontare la realtà di una natura che non è quasi mai rispettata. Per Lucrezio gli eventi che fanno l’infelicità dell’umanità non sono scindibili dai miti. Distinguere nell’uomo ciò che fa parte del mito e ciò che fa parte della Natura, e nella Natura stessa ciò che è necessario salvare oppure superare. Il mito è sempre espressione del falso infinito e del turbamento dell’anima, stati che il Naturalismo tenta di arginare. Ma il Mito è come un idra dalle molte teste ognuna delle quale contiene pensieri devianti. La modernità non crede nei miti, e tuttavia ne crea continuamente. Sono miti effimeri come le spurie teorie che li alimentano. Lo spirito del negativo si nutre di apparenza, rifugge dalla concretezza di un pensiero guidato dall’essenzialità di ciò che è vero. Il Naturalismo, secondo Lucrezio, è il pensiero positivo che rispetta la Natura e non inquina le menti. Pare che alla fine della sua vita Lucrezia sia diventato pazzo, in questo e in altri aspetti simile a Nietzsche che, attraverso altri percorsi, perseguiva lo stesso scopo. Forse la pazzia è stato un premio della natura perché chi l’amava, alla fine dei suoi giorni non fosse consapevole della sconfitta. Oggi dove mai cercheremmo la Natura nel devastato e devastante mondo nel quale la realtà è creata dalla tecnica e anche l’arte è l’ancella di mammona.
Sarebbe utile, per chi ne è capace, soffermarsi sulle scelte e gli atti che costituiscono la nostra vita. Sesto Empirico filosofo dell’antica Grecia, scrisse: “la saggezza (phroneis) è una determinata scienza della vita capace di discernere tra il bene e il male e procurare felicità”. Socrate, padre di tutte le speranze filosofiche di felicità, aveva posto al centro della sua filosofia la distinzione tra il bene e il male. Problema che esula dal pensiero dei cinici. Da Antistene, Diogene, Cratete la loro vita era improntata ad assoluta semplicità e parca di consumi. Così come la vita ha una sola e unica origine per tutti gli esseri viventi, anche la logica che determina ogni più piccolo accadimento corrisponde a una unica legge. Quando non siamo in grado di capire le ragioni di ciò che accade ci affidiamo a parole come “caso” e “destino”. Lo studioso di scienze naturali Jacques Monod, premiato con il Nobel insieme a Francois Jacob, nel 1970 scrisse un libro di grande successo: “Il caso e la necessità”. Nel libro egli sosteneva che la natura agisce in base a principi che non sempre siamo in grado di capire. Le scelte che noi compiamo ogni giorno non possono essere stocastiche, umorali, perché questo significherebbe rinunciare al tentativo di dar un senso alla nostra vita. Anche nell’arte vi una buona dose di casualità, specie nell’arte astratta, anche se artisti e critici insistono su un determinismo programmato. Si racconta che il pittore dell’antica Grecia Apelle dopo avere compiuto molti tentativi di dipingere la schiuma sulla bocca di un cavallo, irato e frustrato, gettò la spugna intrisa di colori contro l’opera incompiuta, ne ottenne con stupore l’effetto desiderato. Nell’Etica Nicomachea, Aristotele tenta di chiarire la necessità dell’uso della ragione nelle scelte che compiamo, e nello stesso tempo coltivare quel minimo di saggezza che ci consente di accettare ciò che la sorte affida al caso. Aristotele nel trattato “Sul bello” usa la metafora della statua, lo scultore di una statua deve togliere, raschiare, lisciare, ripulire finchè nel marmo appaia la bella immagine che si proponeva di realizzare. Così, per rendere la nostra vita bella, dobbiamo sforzarci di eliminare la menzogna, il superfluo, tutto ciò che è inutile. Il cumulo delle cose di cui ci circondiamo appesantisce la nostra stessa esistenza, finisce per renderci schiavi di ciò che non è necessario, si tratti di oggetti materiali, di comportamenti o di atti.
La contemporaneità, in assenza di valori di riferimento, pone sul piedistallo miti assolutamente effimeri. Levi Strauss ha rivelato realtà che svelano la quinta essenza di un patrimonio ambientale universale restituiti in un affresco fatto a loro dimensione. Libri nei quali, senza riguardo alcuno alla realtà. vengono scorticati frammento per frammento sotto i nostri occhi in un progetto di possessività esorbitanti e vengono costretti a sputare fuori tutto il mondo interiore, pensieri, economia, famiglia il desiderio, sciorinare sotto i nostri occhi le situazioni imbarazzanti che il nostro residuale istinto ci mette di fronte. Intimità dispersa nel vissuto sociale. Nel 1937 Roland Barthes diede alle stampe un libro dal titolo “Mithologies”, pubblicato in Italia dall’editore Lerici nel 1962 con il titolo “Miti d’oggi”. Barthes prende lo spunto dall’attualità di allora che già lasciava intravvedere la deriva verso la quale la società occidentale era avviata. L’economia, la famiglia, la libertà sessuale delle donne formano ormai l’aspetto caratterizzante della realtà sociale nella quale viviamo. Prassi, incoraggiata dai mezzi di comunicazione e dallo spettacolo, debolezze e vizi resi incoercibili. Le frenesie tenute a bada, fino alla metà del secolo scorso da un residuo di pudore borghese, oggi ha rotto gli argini, viene a profilandosi un quadro di pratiche e rappresentazioni normalizzate e rese ordinarie mano a mano che l’indottrinamento sociale attuato da media e nuovi “maestri” va ad effetto. Rifiutare il sapere, abbandonarsi al piacere. Ulisse avrebbe dovuto mettersi a ridere quando la sublime voce di Orfeo scatena la rabbia delle sirene e quando esse si indispettiscono a morte per non essere riuscite ad attirarlo nel loro covo. La realtà oggi ha superato di gran lunga ciò Barthes narra nei miti d’oggi. Siamo al punto in cui vengono scritti i libri che decantano il fallimento, lo considerano un valore della società contemporanea. Questa presa di posizione è legata al crollo politico-culturale della sinistra. Quando lo strabismo ideologico, arriva a valorizzare la resa, significa che non è più ipotizzabile un futuro per i giovani, almeno in Italia.”Elogio del fallimento” di Recanati non è certo uno stimolo un’indicazione di speranza per il proseguimento di un impegno culturale sociale che possa accrescere la dimensione umana e conferire motivi per i quali valga la pena di affrontare la difficile realtà del mondo contemporaneo. Il fallimento della sinistra lascia sul campo scorie di amoralità e devianze culturali dalle quali non sarà facile liberarci. La sinistra tenta di far coincidere il proprio fallimento con il fallimento della intera società italiana,che tuttavia conserva ancora brandelli di positività. Dopo 73 anni di lavaggio del cervello praticato dalla cultura della sinistra con tale efficacia che i giovani arrivano a battersi contro se stessi e non vedono il fallimento politico davanti ai loro occhi. Forse dovremmo fermarci e riflettere, tentare di escogitare possibili soluzioni per dare un senso e un futuro all’esistenza delle generazioni che verranno. Non sarà facile, tanto più perché i cattivi maestri non si arrendono al loro fallimento, vorrebbero usare la loro frustrazione per alimentare uno scontento sociale nella speranza che questo consenta loro di riconquistare consenso e potere. Cacciari, vecchio arnese della sinistra estraparlamentare, ha emanato un proclama contro i “populismi”. In realtà è un tentativo di lanciare un salvagente a una classe politica e culturale sommersa dai propri fallimenti.
In un tempo senza spessore l’arte soccombe sotto l’apparenza del contenuto, arretra davanti alla forma vuota. L’arte muore della morte del senso, non sopravvive allo svaporare del reale nel simulacro. La funzione dell’arte è quella di introdurre il simulacro nel reale . Oggi, nella vacanza estetica, in cui viviamo, la modernità dell’arte non più legata alla creazione ma alle pure imposizioni del mercato sul quale dettano legge i collezionisti feticisti. I carapaci teorici, dopo aver dato l’avvio all’insensatezza della forma, non hanno più alcun potere di intervento. L’arte agonizza da tempo, è tenuta in vita da flebo monetarie, il suo reale valore è quanto un detersivo e si regge sullo stesso supporto. Quando l’artista “moderno” si trova per la prima volta davanti ai prodotti dell’industria, Baudelaire dichiara che ha un piede nel transitorio e l’altro nell’interpolare. La scenografia sulla scena del mondo è una via di mezzo tra un pornoshop e un supermercato. L’artista è un impiegato con tanto di curriculum e lettera di presentazione. Non appartiene più a un momento nel quale la corrosiva immaginazione prende le distanze dal presente. Egli è legato al presente mondano in quella che Nietzsche definisce “fraternità astrale” . Un secolo dominato dalla gloria inviolabile di Picasso paragonato a Tiziano. Le aberrazioni della critica sono incoraggiate dall’industria culturale che sforna in continuazione testi “critici”.Warhol è accostato a Leonardo da Vinci. Chi scrive queste cose ha una cattedra universitaria ed è titolare della rubrica critica di un settimanale. La nostra epoca ha un terrore nevrotico di non essere al passo con il futuro. Husserl ha immaginato una coscienza che osa dire il suo nome. La civiltà dei media ha sciaguratamente creato una osmosi tra mercato, cultura, politica, unite da una costante narrazione menzognera. I nostri vecchi per indicare un bugiardo usavano dire: bugiardo come un cavadenti. Il cavadenti prometteva di non far male in realtà faceva molto male, non quanto, in senso metaforico, fanno le menzogne propagate dai media.
In un tempo senza spessore l’arte soccombe sotto l’apparenza del contenuto, arretra davanti alla forma vuota. L’arte muore della morte del senso, non sopravvive allo svaporare del reale nel simulacro. La funzione dell’arte è quella di introdurre il simulacro nel reale . Oggi, nella vacanza estetica, in cui viviamo, la modernità dell’arte non più legata alla creazione ma alle pure imposizioni del mercato sul quale dettano legge i collezionisti feticisti. I carapaci teorici, dopo aver dato l’avvio all’insensatezza della forma, non hanno più alcun potere di intervento. L’arte agonizza da tempo, è tenuta in vita da flebo monetarie, il suo reale valore è quanto un detersivo e si regge sullo stesso supporto. Quando l’artista “moderno” si trova per la prima volta davanti ai prodotti dell’industria, Baudelaire dichiara che ha un piede nel transitorio e l’altro nell’interpolare. La scenografia sulla scena del mondo è una via di mezzo tra un pornoshop e un supermercato. L’artista è un impiegato con tanto di curriculum e lettera di presentazione. Non appartiene più a un momento nel quale la corrosiva immaginazione prende le distanze dal presente. Egli è legato al presente mondano in quella che Nietzsche definisce “fraternità astrale” . Un secolo dominato dalla gloria inviolabile di Picasso paragonato a Tiziano. Le aberrazioni della critica sono incoraggiate dall’industria culturale che sforna in continuazione testi “critici”.Warhol è accostato a Leonardo da Vinci. Chi scrive queste cose ha una cattedra universitaria ed è titolare della rubrica critica di un settimanale. La nostra epoca ha un terrore nevrotico di non essere al passo con il futuro. Husserl ha immaginato una coscienza che osa dire il suo nome. La civiltà dei media ha sciaguratamente creato una osmosi tra mercato, cultura, politica, unite da una costante narrazione menzognera. I nostri vecchi per indicare un bugiardo usavano dire: bugiardo come un cavadenti. Il cavadenti prometteva di non far male in realtà faceva molto male, non quanto, in senso metaforico, fanno le menzogne propagate dai media.
Dopo che i movimenti storici d’avanguardia hanno svelato l’istituzione arte come soluzione dell’enigma dell’effetto, o della mancanza d’effetto, dell’arte, nessuna forma artistica può rivendicare la pretesa di valere per un tempo indefinito, solo per se stessa. La pretesa è stata liquidata definitivamente. Non è stato ancora chiarito il significato dell’avanguardia per la teoria estetica contemporanea, questione a suo tempo affrontata da Adorno. Sull’argomento Burkhardt Lindner ha fornito uno degli spunti più interessanti, egli afferma che nel suo intento di superamento dell’arte nella prassi vivente dell’avanguardia può essere pensata come il più radicale e coerente tentativo di salvaguardare l’universale pretesa di autonomia dell’arte contro tutti gli altri ambiti particolari della società conferendo ad essa un significato pratico. Ovviamente simili giudizi globali andrebbero definiti nelle loro sfumature. Il significato della cesura nella storia dell’arte, provocata dai movimenti storici, non è consistita nella distruzione dell’istituzione arte, ma nella impossibilità di considerare valide le norme estetiche. E’ sfuggito ai movimenti dell’avanguardia, che eliminando il riferimento si rendeva possibile ogni sviluppo dell’aporia. Anche per questo l’avanguardia ha fallito.
Risulta di estremo interesse mettere a confronto le opinioni di quanti, a vario titolo, scrivono sull’arte. Le opinioni sono spesso contrastanti, non di rado basate su apodismi. C’è da chiedersi quale influenza abbiano tali scritti su gli artisti. Se influenzano il loro lavoro significa che l’arte non è cosi “spontanea” e autonoma come taluni sostengono. Se invece non hanno alcuna influenza vuol dire che sono in parte inutili. Di certo la mitizzazione dell’arte e degl’artisti, è andata sviluppandosi in misura inversamente proporzionale alla qualità delle opere. E’inoltre interessante notare che l’evolversi del progresso e dell’influenza della tecnica sulla società ha portato gli artisti a prendere le distanze dal cosiddetto realismo del quale Nietzsche scrisse: “ Essere fedeli alla natura, a tutta!” E poi? Quando è copiata la natura? Infinito è del mondo ogni frammento- Infine se ne dipinge quel che piace. – E che gli piace? Quel che dipinge!”. Forse consapevole del degrado ambientale l’artista ignora sempre di più la natura, forse è un errore. La società contemporanea omologa e appiattisce, è doveroso opporsi, per quel che è possibile. Ritrarre la realtà di oggi è un esercizio triste, ma non inutile. Arciboldo oggi costruirebbe le sue figure non con frutti della natura ma con strumenti tecnologici che aiutano l’essere umano e nel contempo lo degradano.
La morte dell’arte, annunciata da Hegel, deve fare i conti con l’accanimento terapeutico del mercato che non si rassegna alla rinuncia del lucro. Per questo il cadavere è tenuto in vita artificialmente da una pletora di “teorici” che inventano sempre nuovi punti di osservazione. Per Heidegger l’opera d’arte non è il prodotto di un conflitto, ma il conflitto stesso. Soltanto che il conflitto ha cambiato natura. Non è più l’accadere della verità nella sua natura più profonda, ma piuttosto una rassegnata adesione alla richiesta di una civiltà dominata dal consumo. Annullato ogni afflato religioso, abolite le regole di comportamento civile, ridotta la cultura a fini funzionali in vista di attività lucrose, i vari modi attraverso i quali la verità stabilisce se stessa, appaiono inutile ciarpame del passato. Si può dire quindi che l’opera d’arte ha i limiti della sua forma. Il godimento dell’opera d’arte non deriva dalla visione dell’opera stessa, tanto meno dalla comunicazione gnoseologica che trasmette, ma esclusivamente dalla capacità di conferire all’acquirente uno status sociale e una possibilità speculativa. L’artista oggi è un produttore di oggetti privi di valenza culturale. Questo mutamento radicale ha avuto inizio con le cosiddette avanguardie che hanno rifiutato l’esperienza estetica perché considerata retaggio del passato. E’ come se uno scrittore volesse continuare a scrivere rifiutando l’alfabeto perché residuo del passato. Per quanto possa apparire surreale è esattamente ciò che è accaduto. Il sostantivo arte non è però stato rimosso. Dell’artista al fin la meraviglia che il funambolismo continui a funzionare, con l’instancabile ricerca di spunti di provocazione e “originalità” sempre più difficilmente reperibili. L’artista agisce dunque all’interno di un circuito mondano del quale gli intellettuali, critici e filosofi dell’arte, sono gli aedi, essi partecipano alla divisione del bottino. Qualunque cosa significhi una opera d’”arte” oggi, il collezionista raramente è interessato a conoscerla.