Goalkeeper, 1976
Il tema della iconoclastia ha una lunga storia che risale ai tempi di Costantino e Silvestro. Nell’impero bizantino nei secoli ottavo e nono ci fu una forte opposizione all’uso delle immagini,soprattutto nel culto religioso. E’ noto che la religione islamica non permette la raffigurazione del corpo umano e più in generale delle immagini sacre. Non c’è dubbio che se avessero prevalso gli iconoclasti non avremmo avuto il Rinascimento così come lo conosciamo. In ogni caso la diatriba sulla iconoclastia coinvolse anche i Lumi, Diderot scrisse; “ Amico mio se amiamo la verità più che le Belle Arti preghiamo Iddio per gli iconoclasti”. Tuttavia nel 1° volume della Encyclopédie che porta la data 1751, nell’articolo Arts redatto da Diderot vi è una lunga appassionata argomentazione sulle attività liberali, ma alla pittura, scultura, architettura è dedicato poco spazio. In un volume di supplemento, edito nel 1776 viene pubblicato un lungo articolo Beaux Arts, dello svizzero Sulzer, autore di “Teoria generale delle Belle Arti”, in quattro volumi. Nel suo articolo lo studioso elvetico affronta il tema sociale dell’arte anticipando di tre secoli Hauser, egli attribuisce all’arte una funzione politica, l’uso dell’immagine in funzione di autopromozione sociale, per ciò stesso esprime riserva sul tipo di sviluppo iniziato con il mercato dell’arte a partire dai Paesi Bassi. E proprio nella sua storia sulla secessione dei Paesi Bassi che Schiller tenta di attribuire alla plebe la responsabilità dell’iconoclastia per allontanare la responsabilità della Borghesia. Per Rousseau la pittura e la scultura erano strumenti di corruzioni, quasi un Talebano avantilettera. E’ sorprendente come tra i filosofi fosse acuta la percezione del possibile cattivo uso dell’arte, una sorta di profetica visione di ciò che sarebbe puntualmente accaduto. Paul Heinrich Dietrich d’Holbach lanciava un monito: “ Sotto un cattivo governo i capolavori dell’arte servono solo a decorare il sarcofago della nazione”. Goethe e Goya si preoccupano dell’ istruzione degli artisti e della loro capacità di rappresentare in forme incisive gli aspetti sociali e i comportamenti del potere, cosa che lo stesso Goya realizzò nelle sue incisioni.
Nella parte de “L’Ideologia tedesca” in cui Karl Marx dà la propria interpretazione della filosofia di Feuerbach e cita Hegel.
A pagina 13 edizione del 1967 Editori Riuniti, Marx scrive: “ Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza”. Perché la vita non è avulsa dalla realtà, ma piuttosto un percorso attraverso il quale l’essere umano può attuare un processo di crescita culturale e morale.
A pagina 151 della stessa opera e stessa edizione, scrive: “ Il negroidismo è concepito come “il fanciullo”, perché Hegel (Filosofia della storia pag, 89 dice: “L’Africa è il paese dell’infanzia della storia”. “Nella determinazione dello spirito africano (negro) dobbiamo rinunciare del tutto alla categoria dell’universalità”, ancora pag. 90 ossia il fanciullo e il negro pur avendo dei pensieri non hanno ancora il pensiero.
“Nei negri la coscienza non è ancora arrivata a una ferma obiettività, come per esempio Dio, la legge, in cui l’uomo avrebbe l’intuizione della propria essenza”…..”cosicchè manca del tutto la conoscenza dell’essere assoluto”.
Il negro rappresenta l’uomo naturale allo stato libero. Nel Medioevo i filosofi della Patristica e della Scolastica dibattevano se i neri e le donne avessero un’anima. Accennare al tema oggi non è politically correct, quindi si è sbrigativamente considerati razzisti e reazionari. In realtà la questione è più ampia e complessa perché impone una domanda: “Perché personaggi dotati di grande cultura, si sono posti tale problema? Oggi viviamo in una democrazia formale nella quale la legge è costituita da codicilli e cavilli di vario genere, alcuni dei quali erano già stati messi in luce da Francois Rabelais nel suo capolavoro “Gargantua e Pantagruele”. Nel frattempo la situazione etica generale è di gran lunga peggiorata. Perché il razzismo è soprattutto rivolto verso i neri? Perché in ogni paese, Africa compresa, i neri costituiscono un problema? Perché in parallelo con la crescita esponenziale della visibilità e potere femminile la società subisce un tracollo etico? Perché la maggioranza del mondo femminile si schiera sempre a favore di neri e omosessuali? Perché nonostante le indubbie conquiste femminili, la prostituzione e la pornografia non sono diminuite ma di gran lunga aumentate? Perchè anche nel mondo dell’arte le donne hanno dato ampio spazio alla esposizione del corpo e alla sessualità esplicita ed esibita? Tutto avviene con la complicità di una classe politica ignorante e corrotta. Restano domande in attesa di risposte, non di slogan osceni, cortei e polemiche senza costrutto.
Protagonista della storia non è stata la classe operaia o la grande borghesia, ma piuttosto i piccoli borghesi. Nel campo dell’arte come della letteratura e nella politica. Hegel e Kar Marx esprimono un giudizio negativo sulla piccola borghesia. J.J. Rosseau fece della volontà del singolo individuo la base della società, egli era figlio di orologiaio. Altri intellettuali dell’Epoca erano provenienti dal ceto piccolo borghese, Alembert era un trovatello allevato da un vetraio. Harpe allevato in un istituto di carità , Marmontel figlio di un sarto del villaggio, Chamfort era un trovatello, Beaumarchais era anch’egli figlio di un orologiaio. Il “Contratto sociale”di Rosseau non ha mai trovato applicazione nel governo di nessun paese, al più i suoi testi hanno ispirato talune tendenze sociali d’impronta pedagogica. “Emilio” e “La nuova Eloisa”, la cui carica escatologica si rivelò modesta. Dai tempi dell’antica Grecia all’800, l’arte fu appannaggio della piccola borghesia. Mentre letteratura e musica era prodotti esclusivamente del pensiero, l’arte comportava un lavoro manuale, come tale rifiutato da nobili e alto borghesi. Come scrive Max Weber in “Storia economica e sociale dell’antichità”, gli artisti in Grecia erano considerati alla stregua di medici, cantori indovini, appellati con il termine demiourgòs. La posizione sociale e la considerazione degli artisti prese l’abbrivio con l’avvento del mercato dell’arte che ebbe origine nei Paesi Bassi. La maggior parte degli artisti non ricavava di che vivere solo con la pittura. Gli stenti di Rembrandt e di Hals sono un fenomeno prodotto dall’anarchia economica verificatasi all’inizio dal mercato dell’arte. Van Goyen per vivere commerciava in tulipani, Hobblema era esattore, van de Velde aveva un negozio di telerie, Jan Steen Aert van de Velde erano bettolieri. In Italia il mercato dell’arte in pratica non esisteva ancora, gli artisti lavoravano per lo più su commissione. Tutti comunque appartenevano alla piccola borghesia sempre in fermento per la propria precaria condizione sociale ed economica, ma incapaci di prendere davvero posizione fino a quando la Rivoluzione francese del 1789 dette un forte scossone alla società del tempo e scatenò l’ira di una massa indistinta che sfogò nella violenza le proprie rivalse e il proprio odio. Fu un momento relativamente breve perché, prima Napoleone, poi la restaurazione ricrearono le condizioni di dominio delle èlite. Prontamente gli artisti dettero vita allo stile Napoleonico, detto anche Neo Classico. Jacques-Louis David e Antonio Canova furono tra i principali esponenti di quella forma d’arte che precede il Romanticismo. Abbiamo dunque la conferma di come l’arte segua i tempi e li rappresenti quasi sempre in omaggio al potere. Oggi viviamo in una società che Zygmunt Bauman ha definito “liquida”, gli artisti sono soggetti a una sorta di sbandamento socio- culturale, pertanto si limitano a seguire il mainstreem, sostantivo che significa “corrente principale” , detto in altri termini un conformismo che pretende di essere progressista.
Secondo Aristotele è corretto chiamare la filosofia “scienza della verità”. Egli attua la distinzione tra filosofia teoretica il cui fine è verità, e la filosofia pratica volta a indirizzare le azioni. Molta filosofia moderna è impegnata a demolire lo stesso concetto di verità, a partire dal pensiero debole, fino a “A cosa serve la verità?” di Pascal Engel e Richard Rorty (2005). Per superare la difficoltà di trovare argomentazioni convincenti sul piano filosofico la scelta è stata tagliare il nodo, negare l’esistenza stessa della verità. Il pensiero debole è andato oltre, ha negato ogni fondamento alle ragione etica che è alla base della verità. L’insipienza della cultura contemporanea, ben salda nella propria dotta ignoranza, si comporta come i pipistrelli i quali vedono meglio nel buio e ogni barlume di luce li disturba. Molti di questi soloni, cantori della libertà, pensano e agiscono pro domo Cicero, usano cioè la filosofia per giustificare le proprie perversione diventano tanto meno esecrabili quando si cancellano ragioni etiche e veritative. I filosofi dovrebbero stabilire cosa costituisce un valore di riferimento sul quale si impernia l’intera struttura di relazioni umane, tanto più utile oggi che l’umanità è avviata a raggiungere i 10 miliardi di persone nell’arco di pochi anni. Il principio elementare di distinzione tra vero e falso inquinato da teorie ancipiti la cui giustificazione sarebbe sottrarsi ai dogmi, mentre in realtà lo scopo è sottrarsi al “dogma” della ragione logica. In questo modo tutte la vacche sono bige, ci si trova liberi nella vasta prateria della libertà. In base a questo arruffato noema si attua un processo di ectesi nel quale la ragione non ha più voce. La libertà è un falso mito e le illusioni che lo nutrono collidono con natura e storia. Gioca a favore dei creatori di questi pleonasmi concettuali, il fatto che la storia ha tempi lunghi, anche se già ora si profilano le prime conseguenze del malinteso mito di libertà, nei tempi lunghi la società umana sarà sempre meno gestibile. Dopo il progressivo abbandono di ogni riferimento alla natura, seguirà una progressiva disumanizzazione sotto specie scientifica come ipotizzato da Susan Greenfield in “Gente di domani” (2003). “Domani, poi domani e domani,/così il tempo striscia via, a piccoli passi, da un giorno all’altro/ fino all’ultima sillaba del ricordo del tempo/ e tutti i nostri ieri hanno rischiarato gli sciocchi/ la vita verso la polvere della morte…” (Monologo di Macbeth di William Shakespeare).
Diceva Rimbaud:” noi non siamo al mondo”. Siamo chiusi nei nostri interessi particolari nei ristretti orizzonti della quotidianità. Le città moderne riducono ulteriormente lo spazio della nostra visione limitata a tutto ciò che è artificiale e costituisce la nostra vita. Il mondo vero è quello che riusciamo a ricreare dentro di noi, il resto è consumo e necessità. In un profondo pensiero, Biagio Pascal diceva “sotto un certo rapporto, io comprendo il mondo, sotto un altro rapporto esso mi comprende”. Ma oggi ha ancora fondamento questo pensiero? Scrive Maurice Merleau-Ponty in “Fenomenlogia della percezione” “Ci sono due modi d’essere e due soltanto: l’essere in sé, che è quello degli oggetti dispiegati nello spazio, e l’essere per sé che è quello della coscienza”. Il tempo non agisce sulle cose, le lascia a se stesse, prede della propria essenza. Ciò che chiamiamo “soggettività” è qualcosa di molto ambiguo, perché presuppone la nostra chiarezza del pensiero, cosa che implica il dominio della nostra mente. In realtà i nostri pensieri sono fuori dal nostro controllo, non controlliamo, se non in minima parte le nostre stesse sensazioni e decisioni. Noi siamo il prodotto di una cultura, per quanto modesta essa sia, di esperienze che restano dentro di noi, delle irrefrenabili tendenze del nostro corpo. A ciò, oggi, si aggiungono i potenti e pervasivi mezzi di comunicazione di massa che ci condizionano. Dunque i nostri atti e le nostre scelte sono fuori dal nostro controllo mentale che spesso viene addirittura giudicato negativamente. La questione del libero arbitrio è stata affrontata dalla filosofia scolastica senza giungere a conclusioni convincenti. Gli scienziati dibattono sullo stesso concetto di “coscienza” come di qualcosa che è legato alla percezione e alla consapevolezza. Forse non corrisponde al vero la visione dell’essere umano come individuo libero, sol che lo voglia. Credo che il mito della libertà abbia prodotto guasti sociali enormi. Intanto quando si parla di libertà, soprattutto il femminismo, ci si riferisce sempre e soltanto al corpo. Le insulse espressioni “Devi volerti bene” non sono che una forma idiota di solipsismo che si traduce in negatività. Volersi bene non implica che possesso o soddisfazione, entrambi sempre incompleti e provvisori. E’ piuttosto la capacità di auto dominio che ci consente di attuare scelte libere e consapevoli, viatico a una possibile libertà. Difficilmente riusciamo a dominare i nostri pensieri ma, attivando una volontà consapevole, potremmo forse controllare meglio il nostro corpo dando ad esso la libertà di scegliere la misura in cui vivere. La nostra stessa percezione si acuisce, come quando nel silenzio irrompe un suono. Come la rumorosità diffusa, anche la diffusa suggestione, a sesso, a consumo, sensazioni forti ed estranianti, attutiscono la nostra sensibilità e ci rendono più rozzi e insensibili.
Come per l’arte plastica anche la letteratura si presta a interpretazioni plurime. Il “Trattato sull’origine dei romanzi” , scritto da Pierre-Daniel Huet nel 1670, affronta tema storico e filosofico insieme alla funzione e qualità della narrazione. “La Biblioteca di Babele” di Jorge Luis Borges pubblicato nel 1941, traccia un quadro surreale del mondo dei libri. Quando leggiamo un romanzo il nostro apprezzamento si basa sul contenuto o sulla qualità della scrittura? Per Roland Barthes la letteratura non è che la ricerca della parola giusta. Questa sintesi riduttiva sottovaluta l’aspetto “storico” di ogni romanzo che abbia lasciato il segno. “Papà Goriot”, la “Commedia umana” , entrambi di Honoré de Balzac. “I miserabili” di Victor Hugo. “L’uomo senza qualità” di Robert Musil. “I Buddenbrook” di Thomas Mann. Sono alcuni romanzi che rappresentano altrettante pietre miliari nella storia della letteratura. Rappresentano ciuoè i temi di un epoca, filtrati dalla sensibilità dell’autore. Gregor Samsa resta nell’immaginario di chiunque abbia letto “La metamorfosi”. Come “Madame Bovary” di Gustave Flaubert è rimasta, fino a non molti anni fa, lo stereotipo della adultera. Oggi con il rilassamento dei costumi e la totale perdita di valore tutto si perde nel porto delle nebbie di una uniformità francamente squallida. Se la letteratura si riduce al piacere, o divertimento di leggere senza problemi di forma e contenuto, così come avviene nell’arte plastica, si apre la strada a libri come “Cinquanta sfumature di grigio”, non a caso scritto da una donna Erika Leonardi. Purtroppo non sembra che la letteratura incida molto sul linguaggio e sul costume quotidiano. Si dice che in Italia si leggano pochi libri e giornali, un dato negativo, anche se in paesi in cui si legge di più il livello medio del linguaggio quotidiano non è certo più elevato. La ragione è semplice: abitudini e linguaggio sono influenzati molto di più da cinema e tv di quanto lo siano dalle letteratura che pure è sempre più orientata a stimolare le pruderie piuttosto che alla elaborazione di un pensiero creativo e trasfigurante. Vi è inoltre da prendere atto che nella letteratura come nell’arte plastica è sempre maggiore la presenza femminile che impone i temi tipici del mondo delle donne: intimismo e sesso. Considerato che i giornali lungi dal contrastare le tendenze peggiori le assecondano, quando non le esaltano attraverso articoli e recensioni, il quadro complessivo non è confortante, abbiamo la conferma che la cultura contemporanea non solo non è antidoto al degrado, ma se forse lo alimenta.
Nel VII libro (Zeta) della Metafisica Aristotele affronta il tema di sostanza e forma. “…a proposito della sostanza il “nostro” discorso mostra che la forma non si genera (non si crea) …”. La materia e costituita da cose, sassi, fuoco, legno, per la cui modifica occorre l’intervento dell’uomo. Per descrivere un opera si usa spesso impropriamente il sostantivo “creazione” . Lo scultore può produrre cerchi, sfere, cubi, figure umane. Egli usa materiale esistente in natura variamente forgiato. Nel realizzare la forma egli ha per riferimento figure geometriche o figure umane. Può anche scegliere di creare sculture informi o variamente plasmate. L’abilità dell’artista è nel dare forma alla materia imitando ciò che esiste o modificando la materia in modo informale. In quest’ultimo caso si pone il problema del significato come vedremo più avanti per l’arte astratta. In cosa consiste la “creatività”? Nel caso in cui l’artista si limita a realizzare manufatti prodotti industrialmente in forma di quadrati, cubi, parallelepipedi di grandi dimensioni l’intervento dell’artista è ancor più limitato. Discorso parzialmente diverso per la pittura. Anche in questo caso siamo in presenza di utilizzo di materiale esistente. Se si tratta di figurazione vi è il ricorso alla mimesi, mentre nella pittura astratta non vi è imitazione ma, come nella scultura a cui abbiamo accennato sopra, si pone il problema del significato. E’ possibile che la lettura dell’opera sia di tipo emozionale. L’artista manipola il colore creando effetti che possono avere un impatto emotivo, una impressione, quello che è stato definito “Espressionismo astratto” sul quale sarebbe necessario dilungarsi più di quanto sia possibile in questo contesto. In questo caso entrano in gioco le suggestioni derivanti dalla critica e dalla conclamata notorietà dell’autore. Le avanguardie dell’inizio del secolo scorso hanno realizzato opere il cui carattere è “ideologico”, nascono cioè da un idea per lo più con intenti di provocazione. L’arte concettuale invece tende a dare forma ad un concetto. Purtroppo questi procedimenti artistici sono quasi totalmente falliti per almeno due ragioni. Innanzi tutto non hanno avuto effetto provocatorio, tanto che quelle opere sono finite nella maggiori gallerie del mondo e nei musei. In secondo luogo sono state fagocitate dal mercato diventando oggetto d’investimento. Ma il fallimento maggiore è dato dal “successo” , ovvero tutta l’arte è diventata avanguardia, ogni spinta di provocazione di originalità è diventata maniera, accademia, prassi.
Mural di Jackson Pollock 1943
E’ noto che il viaggio può essere visto come metafora. Tra il ‘600 e ‘700 furono molti i personaggi che effettuarono il Gran Tour, viaggio di conoscenza e scoperte dell’Italia. Notissimo ciò che scrisse Goethe durante il viaggio alla scoperta delle bellezze paesaggistiche e culturali del nostro paese. Più di recente è stato scoperto il viaggio del controverso filosofo della perversione Donatien Alphonse marchese De Sade. Ma anche l’avventuroso poeta Byron visitò il nostro paese, così come Shelley. Il viaggio avveniva con la diligenza trainata da cavalli, per i solitari, direttamente in sella a un cavallo, per i più poveri a piedi o dorso a di asino. Il percorso era faticoso e avventuroso, costituiva un accumulo di conoscenza ed esperienza. La calma visione di paesaggi, di antiche rovine, incontro con persone diverse, sentieri, strade, borghi villaggi ognuno con una propria originalità. Oggi usiamo automobile, treno, aereo, abbiamo fretta di arrivare alla meta, tutto ciò che appare nel percorso lo guardiamo distrattamente o lo ignoriamo del tutto. Inoltre le città hanno perso la propria personalità distintiva,sono sempre più simili in ogni angolo del pianeta. Il pensiero unico, “liberale e progressista” esalta la globalizzazione, contro ogni evidenza nega la progressiva uniformità del mondo che rende pleonastica l’espressione “multiculturalismo”, visto che vanno scomparendo le differenze socio- culturali. La cultura e l’arte sono espressione di questo “nuovo” mondo, privo di originalità, spesso privo di significato. Le opere sono realizzate avendo in mente la massa di consumatori, la stessa massa che passa una notte intera in strada al freddo di dicembre per acquistare un paio di scarpe da ginnastica. Ciò che particolarmente colpisce è la mancanza di orgoglio nazionale. Ci si accanisce, con retoriche francamente insulse contro il “sovranismo”. Sentendo la retorica politica di Mattarella e compagni, viene in mente ciò che Karl Marx scrive nella “Ideologia tedesca”: “Dovremmo aiutare i retori a chiarire a se stessi il significato e l’effetto delle parole che usano”. Ai retori anti – sovranisti vorrei consigliare il libro di Ronald G. Witt “L’eccezione italiana” – L’intellettuale laico nel Medioevo e l’origine del Rinascimento (800- 1300)”.Dal libro emerge in modo chiaro che la cultura non è una spruzzata di mondanità, di saperi pragmatici, di retorici richiami alla “Resistenza”, fatti di storia contemporanea travisati dall’ideologia. Cultura è qualcosa di più profondo sedimentato nei millenni, è la ricerca di frammenti di conoscenza che diano senso alla nostra realtà e umanità come andata formandosi. Certo non la si arricchisce disperdendola in un globalismo ottuso, condizionato soprattutto dall’economia, cioè dal bieco materialismo. Il nostro viaggio sembra finito nelle periferie di città entropiche dove viviamo infelici dimentichi del nostro passato.
Le opere della pittura classica sono diventate estranee alla nostra realtà, non solo per la foggia dei vestiti, per i contenuti rappresentati, per la grande abilità pittorica dei maestri del passato, sono estranee soprattutto perché gli spettatori, e non solo il paradigmatico “uomo della strada”, non hanno una adeguata preparazione culturale che consenta di “leggere” il racconto dell’opera. Gli contemporanei “artisti” sono in maggioranza nella stessa situazione. Per avere conferma basta una visita alla Biennale in corso. Quando Raffaello dipinse l’opera denominata “La Scuola di Atene”, creava l’immagine di un mondo scomparso da circa due millenni. Non era pittura celebrativa, ma epidittica, richiamava valori culturali “laici” profondi, anche se i suggerimenti per la realizzazione dell’opera provenivano da dotti componenti della curia Vaticana. L’opera è stata studiata e analizzata da un gran numero di studiosi, filosofi, letterati, anche in epoca recente, sono stati scritti importanti saggi, così come è accaduto per molti altri maestri, Giorgione, Rubens, Rembrandt. Poussin nella sua opera “Et in Arcadia ego” tratta temi non certo a lui contemporanei, dipinge icone simboliche di un mondo situato tra mito e storia. La ricchezza di richiami alla cultura classica fa della sua opera argomento di riflessione sempre stimolante e attuale. L’opera “Las Meninas”, di Diego Velàzques, ha un’incredibile ricchezza di contenuti, allusioni multi- semantiche. La costruzione del quadro rivela grande sapienza pittorica tanto che davanti all’opera pare che Thèophile Gautier abbia esclamato “Dov’è dunque il quadro?”. La grande cultura era alla base delle opere dei classici, vituperati dalle così dette avanguardie. L’apodittica convinzione che la pittura sia inadeguata a rappresentare la realtà contemporanea, appare una deformata metonimia. E’ vero che la realtà di oggi è piatta, squallida, ma questo non esime dal raffigurarla, a condizione di “saperla vedere” in modo non superficiale, ovvero non in un’ottica solipsistica come fanno “artisti” generalmente poveri di fantasia, scarsa cultura, incappaci di rappresentare la realtà, di superarla, tutto ciò che riescono a fare è rappresentare le loro personali nevrosi. Non mi sembra esistono molti “capolavori” d’arte d’avanguardia che offrano spunti per approfondite ermeneutiche . L’artista contemporaneo, malgrè lui, riflette il vuoto che c’è intorno e dentro di lui.
La critica artistica è concepita come una ricerca dei nessi, forme strutture, come una summa, un sistema, una griglia o un codice di differenze precise e sottili il più possibile, di “sfumature” sempre più delicate. Sebbene non abbia a che vedere con le idee generali, segue la ricerca di differenze, citazioni. Se è vero che l’ispirazione è squisitamente individuale, la cultura che la ispira appartiene al patrimonio collettivo. L’artista, attraverso il linguaggio dell’arte, attraverso e grazie all’ispirazione/intuizione dovrebbe essere in grado di comunicare il significato del frammento di realtà che esplora. Accade invece che critica e artista procedano su percorsi paralleli, indugiando specialmente tra interpretazioni psicologiche e contestualizzazioni estemporanee. Tenuto conto che il maggior sforzo compiuto dagli artisti nell’ultimo secolo è la presa di distanza dalle forme classiche, sembra improbabile trovare un aggancio con la storia dell’arte, se non facendo ampio ricorso alla letteratura, una sorta di copia e incolla che serve forse al tentativo di dare giustificazione ad opere francamente insignificanti, nel senso letterale del termine, ma certo non aiuta ad accrescere la conoscenza della discussa fenomenologia dell’arte contemporanea. Tanto più quando celebrati filosofi dell’arte come A. Danto, il quale si ritiene titolato per definire la Metafisica di Aristotele ciarpame. Dubito che Danto abbia letto i 14 libri che costituiscono il corpo della Metafisica di Aristotele. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che il primo libro è l’archè della storia della filosofia, nell’insieme dei libri è contenuto in nuce il successivo sviluppo del sapere dell’Occidente. E’ preoccupante che a simile personaggio l’Università di Torino abbia conferito la laurea honoris causa, ennesima dimostrazione della prevalenza del potere di suggestione degli USA sulla cultura europea e in particolare italiana.