Goalkeeper, 1976
Lenin sosteneva: la vita ci induce a rinunciare al raziocinio insegnandoci la dialettica. In cosa consiste il concetto di dialettica non è così chiaro. Spesso la dialettica è un modo per oscurare il significato del sostantivo verità, in questo modo la verità diventa opinione, argomento filosofico apodittico.
Spinoza struttura la narrazione dell’Etica in questo modo; proposizione, dimostrazione, scolio, conclude con C.d.d. (come dovevasi dimostrare). Egli sviluppa tesi, antitesi, sintesi senza contradditorio. Non vi è una reale concreta dimostrazione, solo una costruzione teorica senza riscontro oggettivo. Si presta quindi ad essere contraddetta. Cosa che puntualmente avviene.
La filosofia può anche essere vista come confronto tra sistemi, o divisa, come sosteneva Willard Van Orman Quine tra concettuale e dottrinale.
Il linguaggio filosofico è inevitabilmente complesso, al limite della gergalità. Heidegger creò un proprio linguaggio. La lettura delle sue opere rende necessaria una sorta di traduzione simultanea.
La filosofia, come l’arte, è spesso appannaggio di dilettanti, ovvero di individui sprovveduti. Contro di loro si scaglia Hegel sostenendo che, mentre un calzolaio per realizzare una scarpa deve imparare il mestiere, in molti presumono che la filosofia non richieda apprendimento e fatica. Hegel non chiarisce la ragione per la quale ciò è possibile. La scarpa è oggetto la cui verificabilità è agevole, la filosofia, è soprattutto un esercizio mentale, sicuramente utile per sviluppare le sinapsi, ma di difficile verifica a posteriori.
Alcuni filosofi hanno l’ambizione di insegnare a pensare. Heidegger ha scritto “Cosa significa pensare”, mentre Diego Marconi assume che il pensare sia un mestiere e espone questa sua convinzione nel libro, “Il mestiere di pensare”.
La filosofia dell’arte non solo pretende, per così dire, di sovrapporsi alle opere con un linguaggio additivo, ma, attraverso una più o meno dotta elaborazione linguistica, si propone di modificare la stessa ontologia dell’arte. Tra gli esponenti di questa corrente spiccano alcuni filosofi statunitensi, tra i quali Arthur C. Danto e George Dickie. Quest’ultimo autore è noto soprattutto per avere espresso la liberatoria e contraddittoria affermazione: tutto è arte. Così, i sopravvenuti filosofi del nuovo mondo, mandano al macero intere biblioteche e secoli di studi e approfondimenti, da Giorgio Vasari a Ernst H. Gombrich e moltissimi altri. Danto liquida la metafisica come “vacua e insensata” (pag. 134 “Dopo la fine dell’arte” Edizioni Bruno Mondadori).
Wittgenstein sosteneva che i problemi filosofici sorgono quando il linguaggio fa vacanza. Ma l’analisi del linguaggio è di per sè una materia complessa tanto che, come detto sopra, in qualche caso i filosofi ritengono necessario creare linguaggi ad hoc con risultati che John L. Austin definiva aberranti.
E’ morto l’ultimo personaggio della Beat Generation Lawrence Ferlinghetti, aveva 100 anni. Scrittore, poeta, pittore, editore. In omaggio a Charlie Chaplin, alla sua libreria dette il nome : “City lights”. Nel 1951 pubblico il libro di Jack Kerouc, “Sulla strada”, praticamente l’unico libro di Kerouc. Cosa resta della folta schiera di provocatori che negli anni ’50 dettero uno scossone al mondo della cultura statunitense? Per Hegel il tempo è divenire intuito. Ma di costoro restano i titoli di libri che pochi hanno letto allora, nessuno legge oggi. Basta provocare per fare cultura? Il libro di Allen Ginsberg “ Jukebox all’idrogeno” suscitò all’epoca un certo scalpore. Molti della Beat Generation erano omosessuali, non a caso Ferlinghetti apri la sua libreria a San Francisco. Pubblicò “Pictures of the gone World”. Ogni libro era una serrata critica alla società dell’epoca accusata di perbenismo. Oggi non avrebbero argomenti.
Del gruppo facevano parte William S. Borroughs, Gregori Corso, Lucien Carr. La loro “cultura” preparò il terreno a quella che doveva essere la più colossale orgia di droga, alcol e sesso. Il festival è noto con il nome della località in cui avvenne: Woodstock. Tre giorni dal 15 al 17 agosto del 1969. All’epoca la Beat Generation era ormai parte della establishment culturale ed aveva influenza nella formazioni di nuove tendenze, nel sorgere della cosiddetta controcultura che Theodore Roszak illustrò nel suo libro che aveva per titolo appunto “La Nascita di una controcultura” pubblicato a New York nel 1969.
L’impulso alla ribellione incoraggiò anche la rivolta dei neri. Il Movimento delle “Pantere nere” ebbe Malcolm Little, meglio noto come Malcolm X, tra i suoi capi. Vi fu un impulso alla cultura degli afro-americani. Malcolm X nel 1969 pubblicò la sua autobiografia. Ne venne fuori uno spaccato dell’America tutt’altro che perbenista. Le donne era già allora in prima fila. Malcolm annota che le moglie degli afro cacciarono le donne bianche dalle sedi delle pantere nere perchè, dissero, con la scusa di sostenere la loro protesta facevano sesso con i loro uomini.
Molti afro pagarono con il carcere la rivolta che non si affidava solo alle manifestazioni di piazza, anche alla pubblicazione di libri, alcuni dei quali sicuramente significativi del clima dell’epoca. Nel 1969, dalla prigione in cui era rinchiuso, Eldridge Cleaver pubblicò “Anima in ghiaccio”. Nel 1971, uscito di prigione,colui che era considerato il più prestigioso leader del “movimento di liberazione dei neri” pubblicò “Dopo la prigione”.
Altro esponente della cultura dei neri fu George Jackson che pubblicò un toccante libro sulla condizione carceraria di allora, specie per i neri. Di quella situazione “I fratelli di Soledad”, pubblicato nel 1971, è una testimonianza storica di tutto rilievo.
Il gruppo della Beat Generation erano soprattutto provocatori, ebbero però il merito di comunicare energia alla generazione di neri che gettò le basi di una società nella quale il colore della pelle non doveva essere una discriminante. Purtroppo viviamo in una società in cui tutto si tiene ma poco scuote davvero le coscienze.
Quando apparve sulla terra, circa 500mila anni fa, l’essere umano era l’animale più indifeso, non aveva la velocità del ghepardo per fuggire alle insidie, non aveva gli artigli e la forza del leone per difendersi e cacciare, non possedeva la prerogativa dell’aquila di sollevarsi al di sopra dei pericoli, avrebbe dovuto soccombere, invece conquistò il mondo e piegò la natura ai propri bisogni utilizzando intelligenza e immaginazione.
Con l’intelligenza creò condizioni e strumenti utili alla propria esistenza, la possibilità di difendersi, e costruì il proprio habitat
Con l’immaginazione creò Dio e l’arte. Aprì uno spiraglio di speranza, per giustificare la propria esistenza con un fine superiore, andare oltre i limiti dell’essere animale, imparare a controllare i propri impulsi con la volontà che Schopenhauer pone alla base della natura vegetale e umana. Questo proposito non ebbe esito.
Fin da subito l’essere umano rinuncio alla verità perchè in conflitto che ciò che egli è. Con la filosofia elaborò una serie di teorie funzionali che non approdarono a nulla. La verità restò allo stadio di ipotesi, non riuscì mai a superare le contraddizioni e i limiti che consistono in ciò che di negativo è nella natura umana.
In “L’origine dell’opera d’arte” Martin Heidegger pone una domanda “Che cos’è la verità? La risposta che egli formula, non è convincente, si perde nella astratto. Egli afferma: l’arte è il mettersi in mostra della verità.
Pascal Engel e Richard Rorty, sulle orme di Pilato, scrissero un libro che titolarono: “A cosa serve la verità?” Domanda pertinente in una società nella quale tutto è funzionale a uno scopo pratico.
In realtà, nella impossibilità, o incapacità, di modificare la nostra natura, abbiamo elaborato complesse teorie per giustificarla, arrivando a una tale esasperato antropocentrismo da immaginare Dio a nostra immagine e somiglianza,senza prima aver mai chiarito il mistero della possibile esistenza di un essere supremo, forma pura di perfezione ed intelligenza. .
I graffiti nelle grotte di Altamira, Lascaux, Chauvet, sono la testimonianza che l’essere umano fin dai primordi è alla ricerca del modo di rappresentare il suo mondo reale e immaginato.
Le pitture rupestri sono immaginazione, evocazione, racconto, magia. Con la modernità l’evoluzione dell’arte sembra avere voluto prendere le distanze dalla natura. In un percorso in cui abbiamo , per così dire, alienato noi stessi. .
L’arte finisce per alimentare il nostro antropocentrismo, ci perdiamo nella esaltazione di noi stessi e tutto ciò che gravita intorno a noi. Una tautologia concettuale, imitazione, ripetizione.
Kandinsky scrive cose bellissime sulla propria arte astratta, la giustifica sostenendo che è pura creazione perché, egli sostiene, non esiste nulla di simile in natura. La tesi, apodittica, trova smentita nelle infinite forme che la natura conferisce alle proprie creazioni, che noi solo in parte conosciamo. Tutto ciò che la natura crea ha una ragione d’essere, non è così per le nostre realizzazioni.
La civiltà, nelle forme in cui è andata configurandosi, ha portato alla pauperizzazione dell’essere umano. Nonostante molte importanti conquiste, abbiamo fallito la sfida più importante: creare un essere umano migliore.
Immagine: Le parole insincere sfioriscono, non arrivano al cuore.
La filosofia si è spesso interessata alla questione della coscienza, ovviamente in forme estremamente complesse ed articolate che non hanno una ricaduta diretta nella sostanzialità interpretativa della normale quotidianità.
In ogni ambito dell’attività umana la coscienza dovrebbe suggerirci comportamenti e decisioni giuste. Ciò che condiziona le nostre azioni è la realtà oggettiva/soggettiva nella quale si dipana la nostra esistenza. Presa di coscienza è sinonimo di consapevolezza.
Tuttavia, nonostante le complesse interpretazioni dei filosofi, resta difficile stabilire in cosa consiste la coscienza, soprattutto comprendere la ragione delle notevoli differenze tra individui.
Nel microcosmo dell’arte, il problema si pone in termini estetici – antropologici avendo presenti, per orientarci, richiami e riferimenti a Kant, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche a cui potremmo aggiungere le riflessioni di M. Kähler, A. Ritsch. Infine la monografia di H.G. Stoker. Vasto ambito che andrebbe ulteriormente ampliato per mettere in luce le molteplicità di fenomeni di coscienza che caratterizzano criticamente i diversi modi possibili di considerare la fenomenologia dell’arte. L’ampia bibliografia, se pur incompleta, aiuta a inquadrare il tema.
Per quanto concerne la storia del concetto di coscienza, la monografia di Stoker si differenza dall’interpretazione esistenziale già nell’impostazione, quindi nei risultati, nonostante parecchie concordanze, Stocker non valuta sufficientemente fin dall’inizio le condizioni ermeneutiche per una descrizione della coscienza sussistente oggettivamente ed effettivamente; con ciò va di pari passo all’annullamento dei confini fra fenomenologia e teologia con danno di ambedue
Per quanto riguarda i fondamenti antropologici della ricerca mutuati dalla soggettività della scelta, la monografia di Stoker rappresenta un considerevole progresso rispetto alle interpretazioni precedenti, più per la trattazione complessiva dei fenomeni della coscienza e delle loro ramificazioni, che per l’analisi delle radici ontologiche del fenomeno.
Se dalle narrazioni concettuali della filosofia, ritorniamo alla concretezza di ciò che l’artista intende comunicare, ci troviamo di fronte a narcisistiche velleità. Effettivamente la comunicazione extramondana trascura il bagaglio epistemologico che dovrebbe essere la base per realizzare la visione soggettiva che l’artista intende rappresentare.
I barattoli di Manzoni, l’orinatoio di Duchamp, la rana crocifissa di Kippenberger, il crocifisso immerso nell’urina di Andres Serrano, sono tutte opere che sollevano perplessità, ci pongono di fronte alla domanda: quale tipo di coscienza muove queste azioni? Qual’è l’intento di quei sedicenti artisti? Lascio a chi legge l’onere della risposta.
Certo è problematico il confronto tra il discorso aureo sulla questione di coscienza, che include, ovviamente aspetti etici, e fatti artistici che riflettono un vuoto interiore, uno squallore esistenziale che sgomenta. E tuttavia tutto viene accettato in nome della cosiddetta libertà di espressione.
Mettere in vendita la coscienza soggettiva per un attimo di notorietà, vellicare gli aspetti peggiori della natura umana, sono forme di prostituzione socio-culturale che dovrebbero far riflettere.
Se è vero che la coscienza e un’entità soggettiva, è altrettanto vero che l’opera d’arte dovrebbe trasmettere valori con valenze universali agendo all’interno di una realtà antropologica e civile. Le opere citate, a cui se ne potrebbero aggiungere molte altre, sono espressioni di una realtà depravata. Realizzare simili opere non significa compiere un atto di libertà, come da più parti si sostiene. La libertà non può essere solo espressione di sterile cinismo. Le opere che abbiamo elencato non hanno alcun valore sul piano dell’etimologia artistica, tanto meno nella simbologia libertaria.
Jannis Kounellis. Scultura vivente. Nudo di giovane donna incinta. 1998
Con l’ultimo colpo di pennello il quadro è ultimato, oppure il pittore si ferma a ciò che Wittgenstein definisce: “ va bene così” Qual è il limite, la completezza della realtà ontologica dell’arte? Cosa è rimasto del rapporto tra arte e vita?
La filosofia antica, in parte ripresa da Heidegger, esamina un percorso dell’esistenza che si conclude con la morte. Il destino dell’essere è un insieme di frammenti temporali che chiamiamo vita, ne accettiamo tutte le inevitabili incompletezze.
Per l’estetica la completezza si realizza nella perfezione, mai raggiunta e non raggiungibile.
La vita si prolunga nella memoria di chi resta e nella testimonianza della poesia. “Passi echeggiano nella memoria in quel corridoio che non percorremmo, verso quella porta che non aprimmo mai.” (T.S. Eliot Quattro quartetti) “Dove urlano le onde e il vento/ dove vola la procellaria e nuota il delfino”.
La pretesa di definire la vita in quanto significato escatologico è destinata a fallire. Platone ci mette di fronte ai nostri limiti con la parabola della caverna.
Talete anticipa con una metafora naturale la narrazione dell’eterno ritorno: “ Entriamo e non entriamo nello stesso fiume”. Il fluire inarrestabile del tempo.
Platone rileva che l’arte crea una doppia illusione, forse necessaria, paradigma dell’esistenza essa stessa illusione.
L’arte contemporanea rifiuta il bello, la storia, la mimesi, ma soprattutto rifiuta la poesia, sembra quasi che il bello, la poesia siano disturbanti quando entrano in esistenze vendute alla funzionalità senza scopo, che non sanno, non possono andare oltre il presente.
La pedagogia ha rinunciato da tempo alla norma dei greci: Kalos kagathos”, Bello e buono. L’espressione Kalokagathia si riferisce alla perfezione fisica e morale della scultura greca del V secolo a.C. L’umanità non ha più visto la perfezione delle sculture di Mirone, Policleto, Fidia, Prassitele, Skopas, Lisippo. I frammenti delle opere di questi artisti sono custoditi nei musei a ricordo di un Arcadia che ai primordi della civiltà ci illuse sulla possibilità che davvero il bello potesse salvare il mondo.
Forse l’umanità non vuole era salvata, non più di quanto una scrofa possa preferire il velluto al fango.
Per quanto si possa far ricorso a teorie spurie non possiamo nasconderci che il mondo così com’è lo abbiamo costruito noi. La nostra storia, la nostra arte, il nostro sistema economico produttivo, i nostri abiti, le nostre abitudini, tutto è frutto della nostra attività, delle nostre scelte, delle nostre azioni. Possiamo esserne orgogliosi? Ai contemporanei l’ardua sentenza.
Quello che è certo, non è stata la filosofia ad orientare le nostre scelte. L’auspicio di Kant: “ Il cielo stellato sopra di noi, la legge morale dentro di noi”, non è mai stato un riferimento, una linea guida, il cielo lo abbiamo inquinato, la legge morale l’abbiamo cancellata.
Nel XVIII secolo Kierkegaard ha espressamente esplicitamente afferrato e acutamente penetrato il problema dell’esistenza come problema esistentivo. La problematica esistenziale gli è però così estranea che egli quanto alla prospettiva ontologica resta completamente sotto il dominio di Hegel e della filosofia antica vista attraverso quest’ultimo. Perciò dal punto di vista filosofico c’è molto più da imparare dai suoi scritti di edificazione che da quelli teorici e inclusi nel concetto di angoscia. Quando pensiamo all’angoscia rappresentata nella pittura automaticamente viene in mente l’urlo di Munch, questa figura sul ponte, sotto il profilo pittorico non è poi così significativa, e tuttavia è entrata nell’immaginario collettivo come espressione di angoscia.
Molto più angoscianti sono le pitture di Francis Bacon, esseri sanguinanti, quarti di bue appesi a ganci, visi deformati e urlanti.
Lucien Freud dipinge l’essere umano di fronte alla decadenza fisica, rappresenta corpi in preda al disfacimento, persone anziani con sguardi voti, rassegnati, con espressioni di assoluta tristezza.
Nella pittura di Baltus troviamo invece immagini apparentemente meno inquietanti, adolescenti ritratte in pose lascive, scomposte. Rappresentazioni di un pedofilo la cui inquietudine è sublimata dalla pittura,una forma più sottile ma non meno profonda d’angoscia.
Grant Wood uno dei maggiori esponenti del gotico americano realizza figure statiche con espressioni perse nel vuoto, in ambienti freddi con edifici che si richiamano allo stile Gotico del quale sembrano fare la parodia.
Edward Hopper crea immagini di una modernità che sembra aver perso il senso dell’esistenza, coppie assenti a se stesse, incapaci di comunicare, sedute in stanze di albergo anonime.
Getty Image va oltre, presenta l’essere umano con ferite sanguinanti che vengono coperte con fasce. Difficile immaginare il contenuto di comunicazione di simili figure che sono allo stesso tempo banali e inquietanti.
Herman Nitch mutila e crocifigge gli animali, presenta immagini di una vagina nel periodo mestruale, fa del sangue oggetto delle sue opere con eccessi di brutalità visiva che si stenta a credere possano indurre al collezionismo.
Questa breve e incompleta rassegna di opere che sono sintomo chiaro di una società triste, confusa, cinica e immensamente triste, persa nell’angosciante vuoto esistenziale avendo perso il senso della propria vita.
Da sempre l’essere umano ha avuto difficoltà nel trovare un equilibrio tra sé stesso e la realtà nella quale si trova a vivere.
Hegel affrontò il tema dell’alienazione in un tempo in cui il problema cominciava a profilarsi, erano i primordi dell’era industriale, quando ebbe inizio la cesura tra essere umano e natura. E’ come se la natura avesse preso atto della nostra indifferenza per ecosistema e, per così dire, ci avesse abbandonati al nostro destino. L’estraneità alla natura ha reso l’essere umano alienato, come iscrive Hegel, dall’estraneità alla natura alla estraneità a se stesso, in un galleggiamento privo di pensiero, senza spiritualità, immerso nel materialismo, nel consumo, assorbito dalle proprie passioni ludiche, nei propri vizi e nei quali si dibatte, spesso quasi con compiacenza.
L’arte non anticipa i tempi, li segue zoppicando, quindi rappresenta senza filtro critico le immagini della “Commedia umana” che Honoré de Balzac descrisse così efficacemente nel suo celebre romanzo.
Grant Wood. “Gotico americano” olio su tela 1930
È Vediamo ciò che pensiamo e attraverso ciò che conosciamo. Lo sguardo come interrogazione, come un passo verso la conoscenza. La costituzione fondamentale della visione si manifesta in una particolare tendenza al “vedere”. Di una persona particolarmente acuta si dice che “sa vedere le cose”. Definiamo la propensione a vedere con il termine: curiosità. E’ la curiosità il principale stimolo alla conoscenza. Noi interpretiamo il fenomeno della curiosità come un fondamento ontologico- esistenziale.
Già nella antichità e nella filosofia greca fu studiata la base del piacere di vedere. Il libro che occupa il primo posto nella raccolta dei trattati aristotelici di ontologia inizia con il fermare l’attenzione sulla visione. Lo sguardo, il vedere, osservare, stimola la riflessione ed è alla origine della scienza come lo è dell’arte. Non è pensabile un pittore privo di vista.
L’interpretazione greca della genesi esistenziale della scienza non è casuale. In essa si fa esplicito ciò che era già delineato nella filosofia di Parmenide. L’essere è ciò che si manifesta alla visione intuitiva pura.
Hans Belting affronta il tema della storia visiva mettendo a confronto diversi aspetti della visione. Nel “I Canoni dello sguardo” (Bollati Boringhieri 2010) usa l’emblema della finestra per sottolineare come mentre nella civiltà occidentale la visione è fondata sul primato dell’occhio e sulla sovranità del soggetto osservatore, la civiltà araba privilegia la luce ed è fedele al grafismo non iconico.
Agostino si interroga sulla concupiscenza dello sguardo, come il vedere influisca profondamente sui nostri pensieri. Oggi che viviamo nella civiltà delleimmagini ci troviamo ad dover affrontare la volgarità delle immagini che incessantemente vengono trasmesse da cinema e tv e si riflettono nei comportamenti quotidiani delle masse.
I sistemi complessi che sovraintendono la produzione di immagini hanno fagocitato anche l’arte. Gli artisti hanno abbassato gli occhi sugli strumenti tecnici rinunciando alla visione immaginifica che guida la mano creatrice. Si è attuato una sorta di incapsulamento tecnologico che ci assorbe e ci distrae, soprattutto diventa un “bisogno” di evasioni, ci rende più psicolabili. Siamo abituati a vedere in ogni dove le persone concentrate sul proprio telefono compulsare sulla tastiera per trasmettere il nulla. La visione del mondo si è ridotta per molti allo spazio di cm7 X11 dello schermo del telefono.
Immagine: Immagine pittorica rielaborata da Piergiorgio Firinu . “Stupore e sgomento”.
I segni sono in primo luogo mezzi, il cui specifico carattere di mezzo consiste nell’indicare. Sono segni di questo genere le pietre di confine, le tracce, le insegne, segnali stradali, segnali di servizi, di pericolo e molti altri.
Le opere d’arte è un segno che pone una necessità ermeneutica non codificata. Ciò lascia spazio a libere interpretazioni. Una figura richiede la conoscenza del rappresentato. Può trattarsi di un personaggio storico, un paesaggio, una persona, una situazione. In tutti i casi, se non ci si limita all’aspetto estetico, è necessaria la conoscenza del rappresentato e del contesto nel quale l’artista ha collocato il soggetto.
Se si tratta di un’opera astratta la lettura si affida esclusivamente alla percezione emozionale. Come scriveva Erwin Panofsky: il disegno si appella alla ragione, il colore all’emozione.
Stabilire il valore di un’opera, per valore non si intende ovviamente il costo monetario ma la rilevanza testimoniale, a prescindere dall’abusato riferimento tra forma e contenuto. Abusato perché in realtà la coincidenza non è mai sufficientemente approfondita ma più spesso ipotizzata.
Il segno rimanda ad altro da sè, in se stesso non ha significato ma valore di rimando. Un segno che non indica nulla è pleonastico.
Un’opera priva di significato può essere percepita nel suo aspetto ludico, piace perchè piace. Tautologia purtroppo diffusa, con la quale si crea una convenzione equivoca. Accettazione e comprensione non sono sinonimi. Il segno non è in relazione alla cosa che indica, ma è semplicemente un rimando la cui efficacia è in rapporto a chi osserva ed è grado di decifrare il contenuto.
Lo stesso segno può essere usato per indicare cose diverse. Così l’opera d’arte può essere letta in modi diversi e gli si può attribuire diversi significati. Di questa possibilità hanno abusato la avanguardie storiche con forzature semantiche in contrasto con l’ontologia dell’opera.
Il segno non richiede forme e materiali specifiche. Vi sono segni assolutamente soggettivi. Il nodo al fazzoletto ha significato per chi lo fa. Le briciole di pane di Pollicino acquistavano il significato di traccia solo per chi era alla ricerca del bambino. All’ampiezza dei significati possibili di un segno, fa riscontro la strettezza della comprensibilità e dell’uso. In molti casi, abbiamo visto che il segno è accessibile solo a chi lo ha fatto.
Molta arte contemporanea travalica l’uso originario del segno e attua una speculazione teorica oggettivamente decettiva. Secondo Heidegger : “ il segno è un utilizzabile ontico che, in quanto è questo determinato mezzo, funge nel contempo da qualcosa che indica la struttura ontologica dell’utilizzabilità e della totalità dei rimandi”. E’ qui sta il fondamento della peculiare utilizzazione del segno nel mondo dell’arte.
La teoria critica oggi in voga trascura il concetto di valore e fa riferimento a immanenze di storicità mondana. Non è il caso qui di inoltrarci in una approfondita disamina. Basti accennare alle svariate aporie insite nella superficialità critica e la mancanza di chiarezza ontologica. Anche l’artificiosità problematica che si è voluta creare intorno agli idoli verbali costituiti dalla critica e filosofia dell’arte, i quali hanno la pretesa di tracciare la storia dell’arte attraverso discutibili ermeneutiche. L’impressione è che le numerose teorie sull’arte nascano da un equivoco. Nella versione data da Platone e Aristotele il concetto di equivoco tende a divaricarsi in molteplici significati, ma sostanzialmente si tratta di essere guidati positivamente da un significato fondamentale. Il problema dell’arte è invece avvolto nella più totale confusione tra teorie spurie e apodismi irrazionali. A partire dalla domanda: come si stabilisce il valore di un’opera d’arte? Una interpretazione potrebbe essere il valore come significato della forma della realtà formale del segno che irradia una molteplicità di stimoli socio-culturali. Ma la mutevolezza del giudizio finisce per essere collegata inestricabilmente alla soggettività psichica, in contrasto con la pretesa di stabilire valori certi. Un giudizio estetico può prescindere dal significato? Se il “bello” è giustificazione a se stesso, anche in questo caso significa disperdere nella soggettività acritica la valutazione dell’opera. Come si vede sono molte le aporie nella quali finiscono per arenarsi critica e filosofia dell’arte. Per mantenere la necessaria dialettica, la facoltà del giudizio dovrebbe innanzitutto essere razionale. Forse per spiegare talune forzature polemiche dovremmo alzare lo sguardo sulle vere motivazioni. Come scrive Peter Sloterdijk: “ ….Il denaro è la terza persona della Trinità..” (Sfere I° Volume. Editore Cortina pag.170) Secondo Kant: “…Il Giudizio è la facoltà di stabilire la corrispondenza alla regola”. Ora il pensiero corrente avviato dalle avanguardie ha stabilito un’assioma: l’arte (ma non solo l’arte) è esentata dal rispetto delle regole, anzi è considerata virtù creativa violare ogni regola. Ne consegue che anche il linguaggio della critica e filosofia dell’arte è esentato dal rispetto delle regole, e quindi diventa la quintessenza della narrazione decettiva , perché comunica null’altro che opinioni nel palese tentativo di creare valori.
Nell’arte si giudica dalla forma dell’oggetto attinente all’estetica, o al suo contenuto? Non c’è dubbio che rispondere a questa domanda vorrebbe dire chiarire il senso della filosofia dell’arte. Peccato che la risposta sia impossibile se non tramite apodismi. Infatti, mentre la quantità e anche la natura di un oggetto in quanto materia può essere accertata, altra cosa è stabilire la qualità con una approssimazione che possa essere generalizzata.
La scelta diventa soggettiva e si affida al sostantivo maschile “gusto”, cioè qualcosa di estremamente opinabile.
Spinoza chiarisce questa propensione nello scolio della preposizione 39 dell’ Etica: “..noi non desideriamo niente per il fatto che lo giudichiamo buono , ma viceversa diciamo buono ciò che desideriamo…” .
Già l’estetica medioevale aveva tentato distinzioni in questo campo. Scoto Eriugena, anticipa la brama collezionistica quando descrive un elegante vaso d’oro, ornato di pietre preziose, guardato dal saggio e da un uomo vizioso. Il saggio ammira l’oggetto per la forma. L’altro guarda ed è preso da desiderio di possederlo. Questa contrapposizione ha una parte considerevole nell’estetica medievale. In Tommaso d’Acquino è già formulata nel senso che è un godimento dell’armonia delle forme, di piacere estetico.
Ciò implica, come abbiamo detto, il gusto. Tema sul quale Galvano della Volpe formula una teoria che tracima nella socialità dell’arte. Operazione tutto sommato tautologica.
Diciamo che la filosofia dell’arte, specie di matrice statunitense, ha contribuito non poco a far nascere il gusto Kitsh e il gusto Kamp. Quest’ultimo è soprattutto preferito dalle comunità omosessuali. Andy Warhol era una sorta di guru della numerosa comunità omosessuale newyorkese che gravitava intono alla Factory.
Quello che Hermann Broch chiama uomo Kitsh si fonda sulla menzogna, come egli afferma, su una rappresentazione per lo più poco consapevole, falsa, illusoria del rapporto con la realtà sociale. Egli scrive: l’uomo contemporaneo ama il Kitsh perché è Kitsh.
Peter Sloterdijk nel primo volume di Sfere (Editore Cortina 2014) pagine 496-97 scrive a proposito della musica Pop e la descrive psicoacustica, o come la definisce Tom-Götter divinità del suono, ritorno alle caverne. E’ possibile sentirla soprattutto nelle Love Parades e nei Gay Pride.
Ecco dunque che l’incultura della contemporaneità ha la propria arte, la propria musica e la propria letteratura, il tutto proposto e riproposto dai media, in particolare tv e cinema.