Goalkeeper, 1976
Qualunque sia il contenuto della nostra conoscenza, e in comunque modo si riferisca all’opera che stiamo osservando, il nostro giudizio è frutto di una sedimentazione di saperi ed esperienze. La preposizione: “a nessuna cosa conviene un predicato che la contraddica”, si chiama principio di non contraddizione; è un criterio generale che appartiene alla logica. L’equivoco nasce dalla modalità di narrazione con pretesa ermeneutica del tutto apodittica. Il giudizio critico viola il principio di non contraddizione ogni qual volta presume di identificare nell’opera significati che non sono riscontrabili. I giudizi sono spesso accolti per abitudine e si combinano con le inclinazioni. Da questo punto di vista appare molto più distruttiva la critica dello psicologo Daniel Wegner che argomenta: “ Le ragioni che adduciamo per giustificare le nostre scelte sono mere confabulazioni, congeniate a posteriori , e per ciò casualmente irrilevanti per la produzione dei nostri giudizi”. Dovrebbe valere l’affermazione di Kant secondo cui: “ La verità di un giudizio è l’accordo della conoscenza con il suo oggetto”. Ma come può valere la conoscenza di un opera che non ha un ontologia definita? Per esempio da dove si possono trarre gli argomenti per attribuire significato a un opera astratta che palesemente non rappresenta nulla, nel senso che è priva di fondamento logico ed ha solo un impatto emozionale indotto dalla disposizione del colore senza disegno? In questi casi entrano in gioco le diverse sensibilità. La storia dell’arte non è solo una teoria di artisti e opere, ma entra nel vivo della storia e della cultura dell’epoca in cui fu creata. Per questa ragione, in molti casi, razionalità e logica non sono necessarie, l’opera è la traccia di un evento, l’immagine di un personaggio, uno scorcio di natura. Nulla di tutto questo è ravvisabile nella maggior parte dell’arte dell’ultimo secolo. In misura ancor maggiore nella cosiddetta arte astratta. L’espediente della critica è spesso di attribuire all’artista un intento preciso, ricamando immaginifici dettagli sulla personalità del soggetto creatore. Come quando si attribuisce a Jackson Pollock la capacità di indirizzare il dripping alla realizzazione di una precisa forma. Trattasi, a mio avviso, di decettività fantasiosa, priva di riscontro oggettivo. In realtà l’esperienza artistica è possibile solo mediante una rappresentazione per realizzare la quale è necessaria la percezione filtrata da gnoseologia e sensibilità che diventano forma.
L’idealismo materiale, ossia l’idealismo che si riferisce alla materia del conoscere, si contrappone all’idealismo formale. L’idealismo problematico di Cartesio dichiara indubitabile solo un’affermazione empirica cioè: io sono. Quello dogmatico di Berkeley considera lo spazio con tutte le cose a cui esso aderisce quali condizioni inseparabili, come qualcosa in se stesso impossibile e dichiara perciò anche le cose nello spazio semplici immaginazione. Ora se noi consideriamo la rappresentazione, come concetto materializzato di una cosa rappresentata, dovremmo dedurne che un concetto resta vuoto se non confermato dall’esperienza. Nella logica immaginaria dell’arte tutto è diverso. Un artista può dipingere, dar forma a un unicorno. L’unicorno esiste,è davanti ai miei occhi, ma non nella realtà. L’arte quindi realizza un ossimoro, crea una realtà che non esiste. L’artista può scegliere tra collocare l’unicorno nello sfondo di una realtà conosciuta, oppure, coerentemente, creare una realtà immaginaria nella quale collocarlo. Altro ossimoro. Tuttavia, mentre l’unicorno è figura mitologica nota, la realtà immaginaria creata dall’artista nella quale colloca l’unicorno, è interamente frutto della sua fantasia creativa, quindi distinta dal reale. Quando affermo che l’arte contemporanea è frammentata, mi riferisco alla difficoltà dell’artista di creare una realtà nella quale collocare l’unicorno, dare quindi compiutezza e continuità la narrazione. Questo limite non impedisce di usare un’immagine mitologica, ma, come detto, rende problematico saper dare all’unicorno una giusta collocazione. Resta la realtà dell’unicorno, per restare alla metafora, esso è collocato però nella scenografia di una realtà nota. E’ quanto ha fatto il surrealismo: immaginare un significato senza la capacità di realizzarlo in una forma compiuta. Una narrazione interrotta che ha aperto la strada all’uso di concetti formali i quali, ancora più che nel surrealismo, restano sospesi nel nulla, privi di una definizione semantica. La rinuncia alla mimesi e alla narrazione storica, ha condotto l’arte al fallimento formale e contenutistico. Così come il delirio modifica tutto ciò che comunque fa parte della nostra esperienza pregressa, mentre oggetti e persone vengono semplicemente deformati, modificate. L’arte con la pretesa di affidarsi alla concettualità, rischia di realizzare qualcosa di simile. Creare una sospensione tra il possibile e immaginario, dare una forma del tutto insufficiente ad esplicare un contenuto autonomo che giustifichi se stesso in una definizione ontologica non spuria. Non c’è dubbio che le teorizzazioni ormai hanno poco a che vedere con l’attuale sistema dell’arte, vista la situazione di un mondo artistico che in pratica funziona esclusivamente in funzione del mercato. Tuttavia sarebbe utile che gli artisti prestassero maggiore attenzione alle motivazioni del loro operare. Forse sarebbero indotti a tentare di dare un’impronta, un significato, alle opere che producono in modo da evitare di galleggiare nel vuoto di velleitarismi, come purtroppo avviene con eccessiva frequenza.
Con il libro “Il paradosso di Antigone” ho tentato di descrivere il fondamento decettivo delle teorie femministe che tendono a rappresentare la donna vittima di una cultura patriarcale. La storia dell’occidente, dove maggiori sono le recriminazioni femminili, dimostra che non c’è mai stata vera sottomissione della donna. Ovviamente ci sono, e ci sono state questione naturali e sociali che in qualche misura determinano i ruoli con vantaggi e svantaggi che vanno sicuramente valutati e in molti casi superati da entrambe le parti.
Resta il fatto che le disuguaglianze non sono prevalentemente di genere, ma di classe sociale. Il problema è ben descritto da Karl Max nel Primo libro del Capitale.
La storia registra il diffuso potere femminile, non solo nella versione descritta da J.J. Bachofen, ma nel tessuto vivo della società.
Ci vorrebbero più libri anche solo per elencare donne regine, nobili, cortigiane che hanno avuto potere, in qualche caso assoluto. Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, Caterina di Russia e molte altre. Da notare che nessuna delle donne che hanno avuto il potere ha inciso sulla posizione sociale delle donne. Rispondere a questa domanda ci aiuterebbe a capire molte cose, ma non è questa la sede.
Quanto scritto appare evidente anche nel campo dell’arte. Nella impossibilità di ricostruire per intero gli eventi, ci limitiamo a brevi cenni prendendo in considerazione un periodo particolarmente interessante della storia di Francia, tra il 1643 – 1742.
Era l’epoca in cui l’assolutismo regio sperperava enormi somme di denaro in feste e lussi di ogni genere, nell’acquisto di opere d’arte, creando grandi collezioni poi finite nei musei, in particolare al Louvre. Ebbene anche in quel periodo la corte era dominata dalle donne nobili e cortigiane.
In particolare due donne si contendevano il predominio nel campo dell’arte. Yeanne f’Albert de Luynes, contessa di Verrua e Jeanne Antoinette, marchesa de Pompadour. La prima, dopo varie relazioni con uomini potenti realizzò una collezione di opere d’arte senza uguali, all’epoca si diceva fosse superiore anche a quella del reggente, il Duca di Orleans. Alla fine della sua vita la contessa Verrua creò una specie di casa di tolleranza di alto bordo che era chiamata Maison de volupté.
La marchesa de Pompadour era la favorita di Luigi XV. Nei ventun anni durante i quali fu maîtresse en titre du Roi dei France, Luigi XV dissipò 72 000 000 di livres per lei. Era il personaggio più potente in Francia, faceva e disfaceva ministri, disponeva di uffici pubblici, di onori e privilegi. Anche Pompadour creò una immensa collezione d’arte che alla sua morte venne gestita da Colbert e Charkes Le Brun.
Ovviamente questi sono solo due tra i moltissimi casi che la storia politica e la storia dell’arte registrano in ordine al potere femminile. La posizione sociale della donna non fu mai una conquista, un merito guadagnato in attività utile alla nazione. All’epoca i maschi si guadagnavano titoli nobiliari e privilegi sociali, sopratutto sui campi di battaglia per conquistare nuovi territori o per difendere la nazione. Ovviamente molti pagavano con la vita. Per le donne posizione sociale e privilegi erano sempre frutto di eredità, matrimoni o relazioni amorose.
Paradossalmente il positivo della filosofia è costituito anche dal linguaggio quasi sempre tortuoso, spesso inutilmente complesso. Perchè dico positivo? Perché l’oscurità del linguaggio induce, a chi voglia capire, soffermarsi con attenzione, rileggere e riflettere.
Questo attiva l’intelletto e lo stimola. Di negativo resta che spesso la difficoltà di comprensione non è data dalla complessità dell’argomento trattato, quanto piuttosto dalla modalità del linguaggio e l’uso di espressioni inutilmente complesse.
Quanto sopra premesso spiega perchè, quando la filosofia entra a gamba tesa bel mondo dell’arte ed attua una propria ermeneutica, non si propone la comprensione dell’opera in esame, ma usa l’opera come pretesto per un esercizio filosofico linguistico parallelo. Ciò produce un effetto surreale di sdoppiamento semantico .
Posto che l’opera in esame, prima della realizzazione, sia stata pensata dall’artista, quale è il percorso mentale che consente al filosofo di interpretare le ragioni che hanno motivata l’opera? Il filosofo compie un processo a ritroso, si riappropria del percorso creativo dell’artista e attraverso questo immaginario processo pretende di attuare un’ermeneutica esaustiva.
D’altra parte, nel momento in cui l’artista abbandona la mimesi, rifiuta il bello e pretende di concretizzare nell’opera una operazione concettuale, cambia la natura stessa del suo agire e da artista diventa filosofo. Siccome presumibilmente la sua preparazione filosofica non è sufficiente a realizzare una vera sistematicità filosofica che egli pretende esprimere nell’opera, ecco dunque che si pone in sottordine a teorie più complesse e apre le porte alla filosofia che non si limita più all’ermeneutica dell’ opera, ma pretende di stabilirne la natura.
Di conseguenza la rappresentazione del reale, filtrato dalla sensibilità dell’artista, lascia il campo ad un creatore di concetti quale l’artista pretende di essere. A posteriori i concetti si sovrappongono alla forma che non più rappresentativa in se stessa .
Inoltre, collegare la rappresentazione di una certa idea ad un determinato oggetto, è processo empirico non necessariamente valido perché può essere inquinato da eccesso di soggettività. Si crea quindi un discrasia per cui la logica della rappresentazione non coincide più con l’immaginazione produttiva.
Piergiorgio Firinu. “I pugni in tasca” . Immagine tra passività e impotenza. Fotografia elaborata. 2020
La logica estrae il contenuto della conoscenza e lo trasforma in concetti. Lo spazio e il tempo contengono molteplici intuizioni pure nelle quali è interpretato il mondo fenomenico, vale a dire il mondo delle nostre sensazioni,ma non i pensieri. Il pensiero rappresenta l’essenza della soggettività, richiamata dal noto detto di Cartesio: “Cogito ergo sum” . Fa parte delle facoltà del nostro intelletto selezionare e accogliere le rappresentazioni degli oggetti che possono quindi entrare ogni volta nel contesto della percezione. La sensibilità, la cultura, la capacità tecnica dell’artista consentono di far confluire nella forma le virtualità delle proprie intuizioni. Non basta la spontaneità del pensiero, nè solo la tecnica, per dar forma al molteplice fenomenologico. Il reale percepito, penetrato, raccolto unificato in una sintesi costituisce la materia gnoseologica che è la base che l’artista utilizza per la realizzazione dell’opera. Questo atto di sintesi è contenuto, trova compimento, nella forma della quale costituisce il valore.
Winckelmann sosteneva che il pennello del pittore dovrebbe essere intinto nell’ intelletto. Considerato che la pittura non è più la parte preponderante della produzione artistica, dovremmo pensare a un necessario adattamento concettuale che consenta di dare continuità all’epistemologia che nutre il pensiero creativo, attuare un connubio tra conoscenza, sensibilità, impressione. Hutcheson collega l’arte ad armonia e regolarità. Shaftesbury, sosteneva la tesi che “all beauty is truth”. Va da sè che le avanguardie hanno capovolto le tesi di questi studiosi accreditando il laido e disarmonico, Il processo è reso possibile dall’abbassamento del livello etico culturale, a cui si aggiunge l’impreparazione dell’artista.
Quando le avanguardie con arroganza apodittica attuarono una radicale cesura con la millenaria cultura artistica, senza proporre alternative, limitandosi a dar vita a una serie di atti e opere di provocazione, con la messa in scena di pantomine derisorie, nella presunzione che, abolendo epistemologia, modificando l’ontologia dell’arte, ne derivasse una maggiore libertà creativa per gli artisti. Fu un errore fatale al quale forse non è più possibile porre rimedio.
La libertà così ottenuta si è tradotta in anarchica ed ha contribuito all’abbassamento del livello di preparazione degli artisti. Dalle nuove correnti artistiche non è emerso un solo pensiero nuovo, qualcosa capace di nutrire l’intelligenza creativa. Gli artisti hanno abdicato alla loro autonomia lasciando alla critica e alla filosofia il compito di dare il significato alla loro opere. Non sono emersi artisti di sufficiente levatura da saper rappresentare in modo adeguato i multiformi fenomeni della contemporaneità. Nella migliore delle ipotesi l’arte contemporanea è costituita da frammenti, figure approssimative o cartellonistica, oppure, come già detto, provocazioni. Negli ultimi tempi hanno trovato ampio consenso i graffiti sui muri, la cosiddetta Street Art. Questo significa che gli artisti non sanno o non vogliono affrontare il difficile combattimento per immagini, non sanno andare oltre la pura rappresentazione, non sanno usare la metafora per rappresentare una realtà filtrata da sensibilità e sapere.
Parafrasando il detto: “le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni”, potremmo dire capovolgendo il senso che la storia dell’arte è lastricata di cattive intenzioni. Infatti così come a Roma il maggior fulgore dell’arte avvenne nel periodo di grande corruzione del papato, anche in Francia con l’ assolutismo regio, si ebbe il periodo di creazione delle istituzioni fondamentali in vigore ancora ai nostri giorni. Da Francesco I a Luigi XIV si ebbero le quattro fasi durante le quali si radicò il potere della monarchia. La prima, quella di Francesco I e Enrico II fu il periodo del plauso popolare per la monarchia, un periodo in cui si diedero al popolo francese i primi frutti del Rinascimento italiano. La seconda fase sotto il regno di Enrico IV portò uno sconvolgimento del paese in lotte religiose e civili. Solo grazie alla grande popolarità personale del re, che peraltro era causa del malcontento, si riuscì a tenere a bada l’ira del popolo e tranquillizzare i protestanti della Linguadoca per essere stati traditi con la sua conversione al cristianesimo e aver perso le loro tradizioni e le libertà. La terza e quarta fase riguardano il deliberato programma di assolutismo sviluppato da Richelieu durante la minore età di Luigi XIII. continuato da Mazzarino. Si raggiunse finalmente il culmine della Corte del Grand Monarque. Una stessa politica fu comune a tutte queste quattro fasi, quella di ottenere con la vendita delle cariche una nuova classe di nobili che in teoria avrebbero dovuto restare fedeli alla corona che li aveva creati, è questa l’origine del noblesse de la robe e del bourgeois gentilhomme.
Al tempo di Luigi XIV questi erano diventati così potenti che a loro volta, malgrado il comico ritratto che ne fa Molière, costituivano una nuova e seria minaccia per l’autorità reale. L’importanza di questi parvenu per la storia dell’arte è incalcolabile poiché diedero vita al mecenatismo e al collezionismo del Seicento in Francia, che è soprattutto la storia della rivalità tra re, reso sempre più splendido dalle sue illimitate spese, ed i suoi ministri e i nuovi milionari che volevano umiliarlo ostentando le loro spese personali. Ci volle il Castello di Versailles, come ben comprese quel Colbert, per tenere al loro posto questi nuovi ricchi.
La politica di Richelieu, assecondando gli artisti dell’epoca fornì la base legittima per un mecenatismo reale delle arti.
Fu infatti in quel periodo, 1635 che fu fondata l’Accadèmie Francaise. Fu il primo passo nell’affermazione del dispotismo intellettuale del Grand Siècle. Colbert fondò l’Accadèmie des Beaux Arts nel 1648, diretta con fermo rigore da Charles Le Brun, un pittore di non grande valore che si riscattò grazie alla sua capacità politica e organizzativa, tanto che divenne l’interprete delle ambizioni politiche e intellettuali dei tre primi ministri del Grand Siècle, Richelieu, Mazzarino e Colbert.
William Chambers scrisse:” Non Leonardo, né Michelangelo, né Raffaello, né Tiziano, ma a Le Brun si deve il perfezionamento della coscienza estetica dell’Europa occidentale.
Nei giorni turbolenti dell’Italia fascista immediatamente precedenti la Seconda Guerra Mondiale, circolava negli ambienti artistici la storia di un turista americano che aveva comprato un quadro di Tiziano a Firenze. Per ingannare le autorità ed esportare il dipinto lo fece ricoprire da un restauratore con una pesante vernice e, quando questa fu asciugata, vi fece dipingere sopra un paesaggio moderno. Il quadro superò la dogana di Modane e giunse a Parigi. A quel punto il collezionista cercò un altro restauratore ancora più abile e gli ordinò di rimuovere la ridipintura e di riportare il quadro allo stato originale. Il restauratore lavorò per varie settimane: scomparve il paesaggio moderno e riapparve Il Tiziano. Non contento però di ciò che aveva trovato, il restauratore continuo la pulizia finché al di sotto proprio sulla tela, apparve un ritratto di Mussolini.
Ora, se è vero che la leggenda è probabilmente apocrifa, la morale che se ne può dedurre è evidente, poiché reca un’impronta di autenticità che va ben oltre le expertises degli studiosi, vendute così promiscuamente nelle sale d’asta.
La questione della falsificazione delle opere d’arte è generalmente vista in modo errato. Si deve considerare che realizzare copie di opere d’arte famose è stata una prassi ordinaria anche dei grandi artisti. Era normale che Velasquez, Rubens, Poussin, facessero copie del Tiziano, Raffaello,Michelangelo. Lavorano alla luce del sole e conservavano le copie nei loro atelier. Questa attività costituiva un esercizio utile per perfezionare la tecnica pittorica. La differenza con i falsari veri e propri stava nel vendere le opere come originali.
Sicuramente le opere di arte contemporanea non invitano alla falsificazione, tuttavia gli artisti hanno adottato criteri di classificazione che rendono difficile vendere per originali opere false. Ci sono artisti che, per la loro produttività abbondante e disordinata facilitano la falsificazione. Di Mario Schifano, a esempio, si dice che sul mercato siano più lo opere false che quelle autentiche.
Qui si potrebbe aprire un discorso interessante sulla ragione per la quale un falso reso perfettamente debba avere un valore inferiore all’originale. Discorso pericolosissimo che è meglio non affrontare in questa sede.
Il Portale Italiano dell’Arte www.artefutrura.org “Il lato uscoro del mercato dell’arte” Leggi sul blog e lascia un commento. ( Opera di S. Malkhasyan. Ritratto di Benito Mussolini. Olio su tela. S.D.)
Una filosofia si annuncia e si rivela fin dai suoi primi distinguo. Si offre tutta intera in questo gesto inaugurale. Prima spiega, prima scissione. Dalla piega annunciata scaturiscono più versanti che daranno vita a opposizioni e moltiplicheranno il senso. Sì creeranno piani, livelli, interpretazioni. Tutto il percorso servirà a ristrutturare ed arricchire il pensiero. Uno dei meriti del platonismo, lo sappiamo, è di aver esplicitato nella filosofia occidentale, la demarcazione iniziale, e anche quando sarà critica, non per questo cesserà di servire da riferimento. “Bisogna cominciare con il distinguere”. dice Platone, “in modo ricorrente nei passi fondamentali”. Nelle sue opere (Repubblica IV 507b;Politico 269d, Timeo 28°) da una parte l’essere eterno “che non nasce” dall’altra “quello che nasce sempre e non esiste mai”. Il primo che solo l’intelletto, il ragionamento afferrano è invisibile, mentre il secondo “che non esiste mai realmente”, si offre alla sensazione. Tale sarà dunque l’inizio, secondo i due significati del termine: punto di partenza, ma anche ciò che “fa la distinzione” nel cuore del reale e lo separa internamente; l’effimero visibile è solo apparenza opposto alla verità dell’eterno. Non è che un teatro di ombre, la caverna dove, voltando le spalle alla luce, sono seduti i prigionieri. Cosa impedisce i prigionieri di uscire dalla caverna? Di cosa sono prigionieri? Domande alle quali la filosofia non ha trovato risposte convincenti impegnandosi a descrivere nel dettaglio le ombre e negando di fatto l’esistenza di una realtà diversa. La caverna è la nostra debole e distorta volontà schiava del sensibile. L’urlo del desiderio dell’animale prevale sulla flebile voce della ragione. La materia incombe sull’anima e gli impedisce di volare. Le ali del pensiero tarpate dal desiderio del corpo. Leibniz aveva immaginato la protezione delle monadi le cui pareti si sono rivelate troppo fragile, la bestia è fuggita.
L’artista deve produrre uno strumento di autoformazione che possa utilizzare per realizzare la propria opera. I generi e la specie dell’arte non si comportano diversamente dalle cose della natura anche se hanno come questa la loro imputabilità, costanza e forma specifica, la loro specifica determinazione alla quale non si può aggiungere né togliere nulla. Non è dunque l’esteta il legislatore dell’arte, allo stesso modo che il matematico e il fisico non sono i legislatori della natura, non comandano nè stabiliscono leggi, ma prendono atto soltanto di ciò che è, mentre cercano di scoprire nuove leggi che la natura non rivela facilmente. Nell’arte non esistono barriere, l’artista non si lega ne lo si obbliga ad attenersi soltanto a taluni aspetti della realtà. La libertà artistica come tutte le libertà nasce dal controllo e dall’uso della ragione intuitiva. I generi dell’arte non sono determinati da limiti, ogni oggetto può essere infatti rappresentato. Come diceva Aristotele l’arte rende bello anche il brutto estetico. Questo non riguarda i contenuti in quanto tali, ma il modo in cui sono rappresentati. E’ l’espressione che distingue la buona arte da imitatori e provocatori. L’artista può dar prova della sua facoltà individuale tra le diverse espressioni di un medesimo oggetto l’artista dovrebbe sempre dare la preferenza a esattezza e fedeltà, chiarezza e concisione, non potrà limitarsi a cercare le novità, la provocazione ad ogni costo per attirare l’attenzione della critica. Dovrà cercare soltanto quelle novità che misurano la giusta innovazione, la necessaria semplicità dell’espressione di un pensiero. Un pensiero nuovo non è affatto un pensiero che non sia mai stato pensato prima, altrettanto non è detto sia espressione intelligente. Vi è poi il rischio di eccesso di soggettivazione, ciò che appare valido soltanto al singolo individuo del suo particolare punto di vista. L’individuo, in quanto soggetto estetico, dovrebbe accantonare le sue peculiarità e le sue idiosincrasie per lasciare parlare soltanto la sua sensibilità come strumento di ermeneutica del reale. Il singolare spostamento dei motivi del pensiero che è frutto di sapere ed esperienza, proteggono l’artista dal pericolo di cadere nel vuoto formalismo e lo aiutano a trovare la semplicità, la schietta, la naturalezza dell’espressione. La consuetudine e la tradizione non sono di ostacolo alla creatività, se mai agiscono da filtro, da verifica a priori. I filosofi dell’arte hanno la pretesa di dettare l’agenda all’artista, la realtà contemporanea incomincia a venir meno alla riflessione critica e la sostituisce ad una finta credulità. Tutto ciò che la cultura intellettuale ed artistica contiene nella sua concretezza puramente empirica deve lasciare spazio alla libertà della quale l’artista ha bisogno, fermo restando che, se di questa libertà fa cattivo uso, ciò si rifletterà nella mediocrità delle sue opere. Purtroppo oggi l’arte rischia di essere considerata semplicemente come una forma di decorazione, una gadget tecnologico, o un argomento mondano.
Dal 1235 alla morte, l’inglese Roberto Grossatesta (1168 – 1253) è stato, oltre che uomo di chiesa, teologo, filosofo e scienziato, colui che affrontò la teoria della luce e indagò un tema che sembra avere radici molto lontane, nelle religioni indoiraniche e nel mito del dio sole. Per il pensiero occidentale sono importanti, soprattutto i riferimenti alla tradizione biblica. La luce è stata il primo prodotto della creazione. Il pensiero platonico e neoplatonico greco nella luce simboleggia il movimento del soprasensibile nella sua diffusione ed espansione di grado in grado fino a disperdersi nel sensibile della materia fisica e metafisica, la sostanza della luce così eterea semplice, è qualcosa di intermedio tra l’intelligibilità del pensiero e la materialità del mondo corporeo terrestre. Grossatesta raccoglie da Sant’Agostino questo tema e lo elabora in connessione anche con la ripresa, già in atto nel secolo XII, delle dottrine più esplicitamente neoplatoniche dello pseudo-dionigi nell’ambito di una conoscenza sempre diffusa della filosofie e della scienze arabe, ebraiche e medievali. La metafisica neoplatonica della luce si apparenta a una cosmologia che già in Sant’Agostino aveva affrontato nei suoi studi sulla Genesi e delle scienze fisico-matematiche nell’ottica della geometria aritmetica. A tutto questo si riallaccia Grossatesta nella sua cosmologia che è originale per l’accostamento tra la genesi e la filosofia di Aristotele, anche se, a differenza dello stagirita, c’è l’impiego della matematica alla maniera platonica. Il pensiero di Grossatesta si esprime con vivacità e con ampiezza tematica che abbraccia tutto il pensiero che il vescovo scienziato ha della cosmologia, della geometria e dell’ottica. Egli indugia anche nella spiegazione fisica di fenomeni come l’iride, approfondisce gli studi della metafisica, si interessa di antropologia. E’ assorto nel tentativo di approfondire anche i grandi problemi inerenti alla forma, la potenza, l’atto visto nella sua casualità, tema di recente affronto da Bachelard. La ricerca della verità che può essere contenuta nella conoscenza l’epistemologia. Neppure il difficile e mai risolto tema del libero arbitrio è trascurato dal Grossatesta negli anni in cui ebbe la cattedra ad Oxford. Molto vicino all’ordine dei francescani , iniziava con lui nel Medioevo europeo una tradizione che pur possiamo chiamare inglese nell’accostamento che egli operava tra le tematiche scientifiche e quelle mistiche e spirituali. Temi che dopo di lui vennero affrontati da Duns Scoto e Ockham. Il tema della luce è argomento che, sia pure in un ottica diversa, coinvolge, o dovremmo dire coinvolgeva l’arte, prima che l’epistemologia dell’arte venisse abbandonata a favore della tecnica, produzione seriale e industriale. Ma questa è un’altra storia.