Goalkeeper, 1976
Con l’ultimo colpo di pennello il quadro è ultimato, oppure il pittore si ferma a ciò che Wittgenstein definisce: “ va bene così” Qual è il limite, la completezza della realtà ontologica dell’arte? Cosa è rimasto del rapporto tra arte e vita?
La filosofia antica, in parte ripresa da Heidegger, esamina un percorso dell’esistenza che si conclude con la morte. Il destino dell’essere è un insieme di frammenti temporali che chiamiamo vita, ne accettiamo tutte le inevitabili incompletezze.
Per l’estetica la completezza si realizza nella perfezione, mai raggiunta e non raggiungibile.
La vita si prolunga nella memoria di chi resta e nella testimonianza della poesia. “Passi echeggiano nella memoria in quel corridoio che non percorremmo, verso quella porta che non aprimmo mai.” (T.S. Eliot Quattro quartetti) “Dove urlano le onde e il vento/ dove vola la procellaria e nuota il delfino”.
La pretesa di definire la vita in quanto significato escatologico è destinata a fallire. Platone ci mette di fronte ai nostri limiti con la parabola della caverna.
Talete anticipa con una metafora naturale la narrazione dell’eterno ritorno: “ Entriamo e non entriamo nello stesso fiume”. Il fluire inarrestabile del tempo.
Platone rileva che l’arte crea una doppia illusione, forse necessaria, paradigma dell’esistenza essa stessa illusione.
L’arte contemporanea rifiuta il bello, la storia, la mimesi, ma soprattutto rifiuta la poesia, sembra quasi che il bello, la poesia siano disturbanti quando entrano in esistenze vendute alla funzionalità senza scopo, che non sanno, non possono andare oltre il presente.
La pedagogia ha rinunciato da tempo alla norma dei greci: Kalos kagathos”, Bello e buono. L’espressione Kalokagathia si riferisce alla perfezione fisica e morale della scultura greca del V secolo a.C. L’umanità non ha più visto la perfezione delle sculture di Mirone, Policleto, Fidia, Prassitele, Skopas, Lisippo. I frammenti delle opere di questi artisti sono custoditi nei musei a ricordo di un Arcadia che ai primordi della civiltà ci illuse sulla possibilità che davvero il bello potesse salvare il mondo.
Forse l’umanità non vuole era salvata, non più di quanto una scrofa possa preferire il velluto al fango.
Per quanto si possa far ricorso a teorie spurie non possiamo nasconderci che il mondo così com’è lo abbiamo costruito noi. La nostra storia, la nostra arte, il nostro sistema economico produttivo, i nostri abiti, le nostre abitudini, tutto è frutto della nostra attività, delle nostre scelte, delle nostre azioni. Possiamo esserne orgogliosi? Ai contemporanei l’ardua sentenza.
Quello che è certo, non è stata la filosofia ad orientare le nostre scelte. L’auspicio di Kant: “ Il cielo stellato sopra di noi, la legge morale dentro di noi”, non è mai stato un riferimento, una linea guida, il cielo lo abbiamo inquinato, la legge morale l’abbiamo cancellata.
Nel XVIII secolo Kierkegaard ha espressamente esplicitamente afferrato e acutamente penetrato il problema dell’esistenza come problema esistentivo. La problematica esistenziale gli è però così estranea che egli quanto alla prospettiva ontologica resta completamente sotto il dominio di Hegel e della filosofia antica vista attraverso quest’ultimo. Perciò dal punto di vista filosofico c’è molto più da imparare dai suoi scritti di edificazione che da quelli teorici e inclusi nel concetto di angoscia. Quando pensiamo all’angoscia rappresentata nella pittura automaticamente viene in mente l’urlo di Munch, questa figura sul ponte, sotto il profilo pittorico non è poi così significativa, e tuttavia è entrata nell’immaginario collettivo come espressione di angoscia.
Molto più angoscianti sono le pitture di Francis Bacon, esseri sanguinanti, quarti di bue appesi a ganci, visi deformati e urlanti.
Lucien Freud dipinge l’essere umano di fronte alla decadenza fisica, rappresenta corpi in preda al disfacimento, persone anziani con sguardi voti, rassegnati, con espressioni di assoluta tristezza.
Nella pittura di Baltus troviamo invece immagini apparentemente meno inquietanti, adolescenti ritratte in pose lascive, scomposte. Rappresentazioni di un pedofilo la cui inquietudine è sublimata dalla pittura,una forma più sottile ma non meno profonda d’angoscia.
Grant Wood uno dei maggiori esponenti del gotico americano realizza figure statiche con espressioni perse nel vuoto, in ambienti freddi con edifici che si richiamano allo stile Gotico del quale sembrano fare la parodia.
Edward Hopper crea immagini di una modernità che sembra aver perso il senso dell’esistenza, coppie assenti a se stesse, incapaci di comunicare, sedute in stanze di albergo anonime.
Getty Image va oltre, presenta l’essere umano con ferite sanguinanti che vengono coperte con fasce. Difficile immaginare il contenuto di comunicazione di simili figure che sono allo stesso tempo banali e inquietanti.
Herman Nitch mutila e crocifigge gli animali, presenta immagini di una vagina nel periodo mestruale, fa del sangue oggetto delle sue opere con eccessi di brutalità visiva che si stenta a credere possano indurre al collezionismo.
Questa breve e incompleta rassegna di opere che sono sintomo chiaro di una società triste, confusa, cinica e immensamente triste, persa nell’angosciante vuoto esistenziale avendo perso il senso della propria vita.
Da sempre l’essere umano ha avuto difficoltà nel trovare un equilibrio tra sé stesso e la realtà nella quale si trova a vivere.
Hegel affrontò il tema dell’alienazione in un tempo in cui il problema cominciava a profilarsi, erano i primordi dell’era industriale, quando ebbe inizio la cesura tra essere umano e natura. E’ come se la natura avesse preso atto della nostra indifferenza per ecosistema e, per così dire, ci avesse abbandonati al nostro destino. L’estraneità alla natura ha reso l’essere umano alienato, come iscrive Hegel, dall’estraneità alla natura alla estraneità a se stesso, in un galleggiamento privo di pensiero, senza spiritualità, immerso nel materialismo, nel consumo, assorbito dalle proprie passioni ludiche, nei propri vizi e nei quali si dibatte, spesso quasi con compiacenza.
L’arte non anticipa i tempi, li segue zoppicando, quindi rappresenta senza filtro critico le immagini della “Commedia umana” che Honoré de Balzac descrisse così efficacemente nel suo celebre romanzo.
Grant Wood. “Gotico americano” olio su tela 1930
È Vediamo ciò che pensiamo e attraverso ciò che conosciamo. Lo sguardo come interrogazione, come un passo verso la conoscenza. La costituzione fondamentale della visione si manifesta in una particolare tendenza al “vedere”. Di una persona particolarmente acuta si dice che “sa vedere le cose”. Definiamo la propensione a vedere con il termine: curiosità. E’ la curiosità il principale stimolo alla conoscenza. Noi interpretiamo il fenomeno della curiosità come un fondamento ontologico- esistenziale.
Già nella antichità e nella filosofia greca fu studiata la base del piacere di vedere. Il libro che occupa il primo posto nella raccolta dei trattati aristotelici di ontologia inizia con il fermare l’attenzione sulla visione. Lo sguardo, il vedere, osservare, stimola la riflessione ed è alla origine della scienza come lo è dell’arte. Non è pensabile un pittore privo di vista.
L’interpretazione greca della genesi esistenziale della scienza non è casuale. In essa si fa esplicito ciò che era già delineato nella filosofia di Parmenide. L’essere è ciò che si manifesta alla visione intuitiva pura.
Hans Belting affronta il tema della storia visiva mettendo a confronto diversi aspetti della visione. Nel “I Canoni dello sguardo” (Bollati Boringhieri 2010) usa l’emblema della finestra per sottolineare come mentre nella civiltà occidentale la visione è fondata sul primato dell’occhio e sulla sovranità del soggetto osservatore, la civiltà araba privilegia la luce ed è fedele al grafismo non iconico.
Agostino si interroga sulla concupiscenza dello sguardo, come il vedere influisca profondamente sui nostri pensieri. Oggi che viviamo nella civiltà delleimmagini ci troviamo ad dover affrontare la volgarità delle immagini che incessantemente vengono trasmesse da cinema e tv e si riflettono nei comportamenti quotidiani delle masse.
I sistemi complessi che sovraintendono la produzione di immagini hanno fagocitato anche l’arte. Gli artisti hanno abbassato gli occhi sugli strumenti tecnici rinunciando alla visione immaginifica che guida la mano creatrice. Si è attuato una sorta di incapsulamento tecnologico che ci assorbe e ci distrae, soprattutto diventa un “bisogno” di evasioni, ci rende più psicolabili. Siamo abituati a vedere in ogni dove le persone concentrate sul proprio telefono compulsare sulla tastiera per trasmettere il nulla. La visione del mondo si è ridotta per molti allo spazio di cm7 X11 dello schermo del telefono.
Immagine: Immagine pittorica rielaborata da Piergiorgio Firinu . “Stupore e sgomento”.
I segni sono in primo luogo mezzi, il cui specifico carattere di mezzo consiste nell’indicare. Sono segni di questo genere le pietre di confine, le tracce, le insegne, segnali stradali, segnali di servizi, di pericolo e molti altri.
Le opere d’arte è un segno che pone una necessità ermeneutica non codificata. Ciò lascia spazio a libere interpretazioni. Una figura richiede la conoscenza del rappresentato. Può trattarsi di un personaggio storico, un paesaggio, una persona, una situazione. In tutti i casi, se non ci si limita all’aspetto estetico, è necessaria la conoscenza del rappresentato e del contesto nel quale l’artista ha collocato il soggetto.
Se si tratta di un’opera astratta la lettura si affida esclusivamente alla percezione emozionale. Come scriveva Erwin Panofsky: il disegno si appella alla ragione, il colore all’emozione.
Stabilire il valore di un’opera, per valore non si intende ovviamente il costo monetario ma la rilevanza testimoniale, a prescindere dall’abusato riferimento tra forma e contenuto. Abusato perché in realtà la coincidenza non è mai sufficientemente approfondita ma più spesso ipotizzata.
Il segno rimanda ad altro da sè, in se stesso non ha significato ma valore di rimando. Un segno che non indica nulla è pleonastico.
Un’opera priva di significato può essere percepita nel suo aspetto ludico, piace perchè piace. Tautologia purtroppo diffusa, con la quale si crea una convenzione equivoca. Accettazione e comprensione non sono sinonimi. Il segno non è in relazione alla cosa che indica, ma è semplicemente un rimando la cui efficacia è in rapporto a chi osserva ed è grado di decifrare il contenuto.
Lo stesso segno può essere usato per indicare cose diverse. Così l’opera d’arte può essere letta in modi diversi e gli si può attribuire diversi significati. Di questa possibilità hanno abusato la avanguardie storiche con forzature semantiche in contrasto con l’ontologia dell’opera.
Il segno non richiede forme e materiali specifiche. Vi sono segni assolutamente soggettivi. Il nodo al fazzoletto ha significato per chi lo fa. Le briciole di pane di Pollicino acquistavano il significato di traccia solo per chi era alla ricerca del bambino. All’ampiezza dei significati possibili di un segno, fa riscontro la strettezza della comprensibilità e dell’uso. In molti casi, abbiamo visto che il segno è accessibile solo a chi lo ha fatto.
Molta arte contemporanea travalica l’uso originario del segno e attua una speculazione teorica oggettivamente decettiva. Secondo Heidegger : “ il segno è un utilizzabile ontico che, in quanto è questo determinato mezzo, funge nel contempo da qualcosa che indica la struttura ontologica dell’utilizzabilità e della totalità dei rimandi”. E’ qui sta il fondamento della peculiare utilizzazione del segno nel mondo dell’arte.
La teoria critica oggi in voga trascura il concetto di valore e fa riferimento a immanenze di storicità mondana. Non è il caso qui di inoltrarci in una approfondita disamina. Basti accennare alle svariate aporie insite nella superficialità critica e la mancanza di chiarezza ontologica. Anche l’artificiosità problematica che si è voluta creare intorno agli idoli verbali costituiti dalla critica e filosofia dell’arte, i quali hanno la pretesa di tracciare la storia dell’arte attraverso discutibili ermeneutiche. L’impressione è che le numerose teorie sull’arte nascano da un equivoco. Nella versione data da Platone e Aristotele il concetto di equivoco tende a divaricarsi in molteplici significati, ma sostanzialmente si tratta di essere guidati positivamente da un significato fondamentale. Il problema dell’arte è invece avvolto nella più totale confusione tra teorie spurie e apodismi irrazionali. A partire dalla domanda: come si stabilisce il valore di un’opera d’arte? Una interpretazione potrebbe essere il valore come significato della forma della realtà formale del segno che irradia una molteplicità di stimoli socio-culturali. Ma la mutevolezza del giudizio finisce per essere collegata inestricabilmente alla soggettività psichica, in contrasto con la pretesa di stabilire valori certi. Un giudizio estetico può prescindere dal significato? Se il “bello” è giustificazione a se stesso, anche in questo caso significa disperdere nella soggettività acritica la valutazione dell’opera. Come si vede sono molte le aporie nella quali finiscono per arenarsi critica e filosofia dell’arte. Per mantenere la necessaria dialettica, la facoltà del giudizio dovrebbe innanzitutto essere razionale. Forse per spiegare talune forzature polemiche dovremmo alzare lo sguardo sulle vere motivazioni. Come scrive Peter Sloterdijk: “ ….Il denaro è la terza persona della Trinità..” (Sfere I° Volume. Editore Cortina pag.170) Secondo Kant: “…Il Giudizio è la facoltà di stabilire la corrispondenza alla regola”. Ora il pensiero corrente avviato dalle avanguardie ha stabilito un’assioma: l’arte (ma non solo l’arte) è esentata dal rispetto delle regole, anzi è considerata virtù creativa violare ogni regola. Ne consegue che anche il linguaggio della critica e filosofia dell’arte è esentato dal rispetto delle regole, e quindi diventa la quintessenza della narrazione decettiva , perché comunica null’altro che opinioni nel palese tentativo di creare valori.
Nell’arte si giudica dalla forma dell’oggetto attinente all’estetica, o al suo contenuto? Non c’è dubbio che rispondere a questa domanda vorrebbe dire chiarire il senso della filosofia dell’arte. Peccato che la risposta sia impossibile se non tramite apodismi. Infatti, mentre la quantità e anche la natura di un oggetto in quanto materia può essere accertata, altra cosa è stabilire la qualità con una approssimazione che possa essere generalizzata.
La scelta diventa soggettiva e si affida al sostantivo maschile “gusto”, cioè qualcosa di estremamente opinabile.
Spinoza chiarisce questa propensione nello scolio della preposizione 39 dell’ Etica: “..noi non desideriamo niente per il fatto che lo giudichiamo buono , ma viceversa diciamo buono ciò che desideriamo…” .
Già l’estetica medioevale aveva tentato distinzioni in questo campo. Scoto Eriugena, anticipa la brama collezionistica quando descrive un elegante vaso d’oro, ornato di pietre preziose, guardato dal saggio e da un uomo vizioso. Il saggio ammira l’oggetto per la forma. L’altro guarda ed è preso da desiderio di possederlo. Questa contrapposizione ha una parte considerevole nell’estetica medievale. In Tommaso d’Acquino è già formulata nel senso che è un godimento dell’armonia delle forme, di piacere estetico.
Ciò implica, come abbiamo detto, il gusto. Tema sul quale Galvano della Volpe formula una teoria che tracima nella socialità dell’arte. Operazione tutto sommato tautologica.
Diciamo che la filosofia dell’arte, specie di matrice statunitense, ha contribuito non poco a far nascere il gusto Kitsh e il gusto Kamp. Quest’ultimo è soprattutto preferito dalle comunità omosessuali. Andy Warhol era una sorta di guru della numerosa comunità omosessuale newyorkese che gravitava intono alla Factory.
Quello che Hermann Broch chiama uomo Kitsh si fonda sulla menzogna, come egli afferma, su una rappresentazione per lo più poco consapevole, falsa, illusoria del rapporto con la realtà sociale. Egli scrive: l’uomo contemporaneo ama il Kitsh perché è Kitsh.
Peter Sloterdijk nel primo volume di Sfere (Editore Cortina 2014) pagine 496-97 scrive a proposito della musica Pop e la descrive psicoacustica, o come la definisce Tom-Götter divinità del suono, ritorno alle caverne. E’ possibile sentirla soprattutto nelle Love Parades e nei Gay Pride.
Ecco dunque che l’incultura della contemporaneità ha la propria arte, la propria musica e la propria letteratura, il tutto proposto e riproposto dai media, in particolare tv e cinema.
E’ un luogo comune, come tutti i luoghi comuni contiene una buona dose di verità, la diffusa convinzione che i veri artisti abbiamo la capacità di anticipare il futuro. Sfogliando la storia della letteratura non mancano gli esempi, qui vorremmo soffermarci sul capolavoro di Francois Rabelais “Gargantua e Pantagruele”. Dopo la guerra contro Picrocole, Gargantua premia coloro che hanno combattuto dalla sua parte. Fra Giovanni rifiuta tutti i doni e chiede di poter erigere un abbazia che chiamerà “Thelème”. Dal greco, desiderio, volontà: a significare che era un luogo libero. Infatti sul frontone dell’abbazia venne scolpita la frase “ Fa quello che vuoi” Questa avrebbe dovuto essere la prima regola di quel luogo. Se non che, scritte in poesia e in prosa, seguono pagine in cui è indicato chi può essere ospitato, chi no, cosa si può fare a cosa non si può fare. L’originalità consiste nel fatto che le regole sono esattamente opposte a quelle in vigore all’epoca nei conventi, tuttavia sempre regole sono. Ma, ecco l’intuizione geniale di Rabelais, le regole risultano in fondo non necessarie giacchè prevale lo spirito gregario. Scrive infatti il nostro: “E proprio per tale libertà, assunsero una lodevole emulazione di fare tutti quello che vedevano fare a uno di loro. Se qualcuno diceva:”Beviamo”, tutti bevevano; se diceva “Giochiamo”, tutti giocavano; …” E così di seguito. Se qualcuno pensa ai giovani di oggi? “Honni soi qui male y pense”.
La lettura dell’ultimo lavoro di Paul Virilio “L’incidente del futuro” suscita reazioni contrastanti. Un filosofo si occupa della deriva socio-culturale a cui siamo immersi da tempo, mette l’accento sugli apodismi alla base della incongruenza sociale. La tesi che sviluppa non è però coerente. Il progresso non elimina ciò che resta di umano in noi, com’egli sostiene. Se così fosse non ci troveremmo sommersi da crescente entropia sociale con la quale dobbiamo fare i conti. Il progresso è usato a pretesto e giustificazione di comportamenti ignobili e insensati, tipicamente umani. “Progresso” e “Libertà” sono i due miti del nostro tempo. Gli esempi citati da Virilio dimostrano che non sempre i due termini sono compatibili. Non perché il cattivo di turno, scienziato o politico, disponga di macchine infernali di coercizione. Il “Il Grande Fratello” è opera di mediocri personaggi della comunicazione e spettacolo. L’ansia di prostituirsi moralmente è così diffusa da non avere bisogno di essere incoraggiata. Le ventimila ragazze che si presentano per un posto da Velina, vedono se stesse come evolute, moderne, aperte a tutto ciò che è nuovo. Dunque alla locomotiva del progresso non serve il ricorso a violenza e/o sotterfugi per procurarsi il carburante. Una folla davanti alla caldaia ansiosa di buttarsi nelle fiamme della “libertà” e progresso”. Forse, avrebbero difficoltà e definire i due sostantivi, ma questo non fa differenza.
Vi sono realtà che percepiamo ma non vediamo. Il freddo, il caldo. L’ombra la vediamo ma è percepibile al tatto, non è nulla solo assenza di luce. Altre realtà sono un nostro difetto di visione. Immaginiamo un daltonico, un astigmatico, osservano un oggetto e lo vedono difettoso, un colore diverso, una immagine sfocata. Vediamo cioè un difetto nell’oggetto osservato mentre in realtà il difetto è di chi osserva. Questo tipo di difficoltà può essere individuato e risolto con l’ausilio di un supporto tecnico. Ma cosa accade quando un difetto di valutazione, di comprensione, sono dovute all’intelletto, quando cioè l’intelletto non riesce a comprendere uno scritto, un pensiero, una fenomeno? Intanto è estremamente difficile stabile con sufficiente approssimazione il reale livello di comprensione. Conoscere non equivale a capire. Questa spiega l’apparente paradosso di persone colte ma ottuse.
Nella grande ricchezza della lingua, chi scrive si trova impegnato nella ricerca della parola giusta, che risponda esattamente al concetto che vuole esprimere. Secondo Roland Barthes la ricerca della parola giusta costituisce l’essenza della letteratura. Altri tempi.
Platone si servi dell’espressione idea nel senso di qualcosa che non è ricavato dai sensi , ma sorpassa anche i concetti dell’intelletto. Le idee sono per lui gli archetipi delle cose stesse, non semplici chiavi per esperienze possibili. Per Aristotele nell’esperienza non s’incontra mai nulla che vi sia adeguato.
Se noi partiamo da queste premesse per esaminare la narrazione condotta dalla filosofia dell’arte, ci rendiamo conto che, nella maggior parte dei testi, non si manifesta la capacità di penetrare il significato vero del fenomeno arte nella espressione materiale in cui si presenta. Se, ad esempio, com’è stato stabilito, il colore esprime pura emozione, il voler dare un significato razionale a un opera astratta, basata cioè esclusivamente sul colore, è operazione inattuabile se non facendo ricorso ad apodismi. A meno di supporre che il filoso più che un tentativo ermeneutico, si affidi a un esercizio di narrazione sofistica.
Zenone d’Elea, sottile dialettico, fu molto biasimato da Platone come petulante sofista, perché egli per dar prova della sua abilità dialettica cercava di una stessa proposizione dimostrare, tramite speciosi argomenti, prima la sua fondatezza e poi la sua inconsistenza logica. Quando un filosofo scrive testi per tentare di argomentare in ordine ai fenomeni artistici, distinguendo qualità, significato e valore di singole opere, e poi approdare all’affermazione: tutto è arte. Va da se che, se tutto è arte sono pleonastiche le distinzioni di merito e di valore, tutto è affidato al gusto e alla scelta soggettiva, le teorie sull’arte si disperdono in immaginazione decettiva.
L’arte può essere ridotta a sperimentazione, provocazione, estemporaneità? Quando nel 1937 Duchamp mette insieme una sorta di happening durante il quale finge di decapitarsi, facendo il verso all’opera di Caravaggio “La testa di San Giovanni Battista offerta a Salomè”. Cosa esprime veramente?
Quando Piero Manzoni nel 1961, assumendo di realizzare un’opera concettuale crea i suoi barattoli come opera d’arte definendola “Merda d’Artista”. Cosa esprime? Cosa rappresenta? Sono provocazioni o semplici intermezzi, una sorta di involontaria comicità surreale? Storici e filosofi dell’arte fanno ricorso a spurie argomentazioni, senza però saper entrare nel vivo del percorso creativo che pretende di creare una nuova ontologia dell’arte. In realtà l’ambizioso proposito si perde in un pensiero autoreferenziale. Forse il problema è più semplice di quanto si suppone. Una società bolsa, affetta da consumo, priva di ideali e di etica, non può che produrre artisti di quella risma e, inevitabilmente, celebrarli in funzione del riscontro mercantile. Tra le ragioni della creatività vi è anche la sublimazione. L’arte ha sempre interpretato la storia, il mito, forse anche quando non erano del tutto compresi. Stalin definì gli scrittori “ingegneri dell’anima”. Forse l’arte può essere definita balsamo dello spirito. Dovremmo riflettere sul fatto che nelle società nelle quali vige la repressione, nascono artisti di grande valore. Pensiamo alla Russia al tempo degli Zar nella quale operarono artisti come Fedor Dostoevskj, Leone Toltoj, Maksim Gor’kij, Anton Cechov, Nicolaj Gogol, Ivan Turgenev, molti altri scrittori di altissimo livello. Quale può essere la spiegazione? Forse viviamo in un tempo nel quale la società è femminilizzata, siamo nell’era dell’apparenza, della superficialità dell’edonismo. Come già aveva scritto Hegel, l’arte, nella sua essenzialità. è estranea alla civiltà moderna. Gli artisti non posseggono più la sensibilità e gli strumenti culturali per dare alla loro arte un’impronta storica di ampio respiro.
L’ interpretazione del tempo che viviamo è l’esatto opposto dell’illustrazione, per certi versi involontaria, della modernità che si attua con la Pop Art. Si tratta di dar forma a cultura e storia.
La morte di Pablo Neruda a Santiago del Cile il 23 settembre 1973 diede vita a polemiche infinite. Renato Guttuso creò un disegno e incisione che non furono mai esposti nei quali rappresentò la morte del poeta. Anche questa è la funzione dell’arte, la denuncia del dolore. Come David con la Morte di Marat. Oggi al più vi è l’utilizzo del mito in funzione di ideologie faziose, di corto respiro. Come la reinterpretazione in chiave femminista del mito di Leda e il cigno realizzata dall’artista americana Dana Schulz. I funerali dell’arte continuano da quasi un secolo in un tripudio di ottusa mondanità.