Goalkeeper, 1976
Nel 1990 sulla rivista Tiger’s Eys, Barnet Newman pubblicò lo scritto “The sublime is now”. Una sorta di manifesto dell’arte astratta nel quale emergono aspetti della cultura statunitense che in Europa non credo siano mai stati sufficientemente analizzati e approfonditi.
Quarant’anni prima, 1950/51, lo stesso artista presentò un’opera di pittura astratta alla quale diede il titolo “Vir Heroicus Sublimis”. L’opera fu accolta con entusiasmo dalla critica. Si trattava di un olio su tela di m. 2,42 X m.5,42, di colore uniforme, rosso/arancione attraversato da piccole fenditure di colore alle quali Newman, forse ironicamente, diede il nome di zip.
Sia lo scritto The sublime is now che l’opera Vir Heroicus Sublimis tennero campo a lungo nella cultura visiva statunitense. Come sempre avviene furono elaborate diverse letture, nonostante la dichiarazione di Newman: l’opera non rappresenta nulla.
Il suo “manifesto” conteneva un durissimo attacco alla cultura europea. “ …Noi ci siamo sbarazzati dal peso morto della memoria, dell’associazione, della nostalgia, della leggenda, del mito, o di qualunque altra cosa vogliono significare le invenzioni della pittura europea occidentale….”.
Barnet Mewman aveva frequentata la facoltà di filosofia. Si servì della sua conoscenza per disseminare nel testo citazioni a partire da Longino, il primo filosofo che si occupò del sublime. Poi Platone, Aristotele, Kant, Hegel. In particolare dal suo scritto emerge la conoscenza del libro: “Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee si sublime e bello” pubblicato da Edmund Burke nel 1757.
Il contenuto aggressivo del testo che Newman scrisse contro la cultura europea, si scontra con il paradosso che tutti i filosofi che egli cita appartengono alla cultura europea.
A mio parere, lo scritto di Newman, con la roboante esaltazione della sua opera, ha motivazioni di carattere psicologico e forti venature nazionalistiche la cui interpretazione potrebbe essere tema psicanalisi. Dallo scritto infatti appare evidente un enorme complesso d’inferiorità nei confronti della cultura europea che afferma di voler rifiutare.
Già in passato ho affrontato il tema di come sia stato possibile che, anche alla luce della enorme arroganza che contraddistingue Newman, come lui buona parte dei protagonisti del mondo dell’arte statunitense, gli intellettuali e artisti europei hanno supinamente accettata una egemonia non certo basata sulla superiorità culturale.
Ho ripreso oggi questo tema alla luce dei recenti tentativi di revanche degli Stati Uniti, che, pare, nutrano la speranza di mantenere una egemonia. Temo che il tentativo sia destinato a fallire. I tempi sono mutati. La credibilità morale degli USA è crollata dopo la serie di guerre immotivate. Gli stessi intellettuali statunitensi hanno preso le distanze da un potere che inutilmente tenta di dare credibilità a se stesso. Da tempo i libri di Noam Chomsky raccontano di arroganze e misfatti del potere statunitense. Di recente John J. Mearsheimer ha pubblicato “La grande illusione”, nel quale descrive il fallimento degli ultimi presidenti USA nella loro pretesa di imporre la Weltanschauung americana con i carri armati.
Nel 1797 sotto il regno di Carlo IV re di Spagna, Francisco José de Goya Y Lucientes, realizzò la serie: Caprichos.
Il Caprichos 43, meglio noto con il titolo: “Il sonno della ragione genera mostri”, ha indotto a varie interpretazioni. Nel periodo in cui venne realizzata l’opera erano passati 8 anni dalla presa della Bastiglia e l’inizio della rivoluzione francese.
J.J. Rousseau,filosofo illuminista, autore de “Il contratto sociale” e “Emilio”, opere che affrontano il tema della libertà, distinse tra chi nega la libertà, chi si batte per conquistarla, questione intorno a cui si è dipanata la storia umana. Che parte ha la ragione in questo confronto?
Presumere che la libertà possa essere concessa dal potere è una illusione. La storia dimostra che, nel perenne confronto tra esseri umani c’è chi soccombe e perde la libertà. Tutte le rivoluzioni, le teorie, non hanno eliminato questa realtà. Coloro che conquistato il potere,spesso negano la libertà ad altri uomini. Millenni di filosofia e religione non solo non hanno eliminato i conflitti sociali,ne hanno creati altri. Oggi, oltre alle guerre, mai cessate, vi sono conflitti tra generi. Le donne reclamano più potere e rispetto dei loro diritti. Questo conflitto che taglia in due la società, maschi contro femmine, non esisteva al tempo di Goya.
Alla luce dell’esperienza, dopo rivoluzioni e guerre è ancora pensabile che la ragione, dormiente o meno, sia capace di governare il mondo? Il Capriccio 43 appare ottimistico quando presume che la desta ragione abbia come fine il bene comune.
Nel 1511 Erasmo da Rotterdam pubblicò il saggio: “Elogio della Follia”. Il grande umanista olandese,il solo che seppe confrontarsi con Martin Lutero sul piano logico e dottrinale, aveva un concetto diverso da Goya della ragione umana.
Per la creazione della sua opera pare che Goya traesse ispirazione dalla lettura dell’Ars Poetica di Orazio e da alcuni scritti di Marco Vitruvio. Gli studiosi che si sono dedicati all’ermeneutica dell’opera, gli hanno attribuito significati diversi. Chi vide una lettura positiva all’illuminismo, altri sostennero il contrario. Mettere una donna sull’altare e adorarla come dea della ragione, non era certo un segno di condotta razionale. Soprattutto, era contro la ragione scatenare il terrore, e massacrare migliaia di persone. Lo slogan che ispirò la rivoluzione francese : Libertè, Egalitè, Fraternitè, non è mai diventato realtà.
Dunque, la ragione è uno strumento neutro. I peggiori crimini commessi dagli uomini contro altri uomini sono sempre stati giustificati usando la “ragione”,a volte aggettivata come “dialettica”.
Adam Smith,docente di filosofia morale, in “La ricchezza delle nazioni”,scrisse:“Non è dalla benevolenza del macellaio,del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il pranzo,ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse”. Difficile conciliare la ragione con egoismo che domina il mondo.
Dall’opera di Goya, siamo approdati al macellaio di Adam Smith sul filo della ragione. Cartesio, Hume, Locke, Kant, Voltaire, ogni filosofo ha dato una lettura diversa della capacità raziocinante dell’uomo. La natura ha dotato gli esseri umani di intelligenza ma non di volontà sufficiente per contrastare aspetti meno nobili della propria natura. Anche quando la ragione non dorme, raramente è impegnata a far del bene agli altri, piuttosto, come i bottegai di Smith, è impegnata a curare i propri interessi, soddisfare i propri desideri.
Dopo l’ incisione del Caprichos 43, Goya non ha più affrontato il tema, in vecchiaia, come Voltaire e altri filosofi pare sia giunto alle stesse conclusioni di Kant: “Nessuno riuscirà mai a raddrizzare il legno storno dell’umanità”. La ragione non basta.
Brevi cenni sull’opera di Velazquez: Las Meninas. Capolavoro di realismo immaginifico.
L’osservatore può cadere nella tentazione ermeneutica di ravvisare nell’opera una teoria filosofica. Se tutto ciò che il pittore dipinge rende visibile e riconoscibile una rappresentazione del riflesso della realtà, si dovrà concludere che l’opera espone una visione complessiva del mondo come pura apparenza? Volendo giocare con le teorie, si potrebbe sostenere che l’opera è una rappresentazione che esige Res cogitans del tutto separata dalla Rex estensa. L’opera di Velasquez mostra come sostanzialmente identici il vedere e l’esser visto, ci sarebbe dunque più di Spinozza che di Cartesio. Il mondo come idea, secondo Cartesio e Locke, come pura rappresentazione del senso in Schopenhauer? Un anticipazione della Condition humaine di René Magritte? Tutto è espressione dell’io dell’artista? Magritte descrive effettivamente la condizione umana secondo una precisa tradizione filosofica, per la quale non abbiamo accesso alle cose ma ci confrontiamo sempre soltanto con le nostre rappresentazioni delle cose, come se fossimo seduti in una stanza dietro una tela dipinta che fa da finestra. Velazquez, contrariamente a Magritte, non si occupa della presunta condizione umana,bensì dell’arte pittorica. Il dipinto rappresenta la realtà così com’è realmente, non è vero l’opposto, che la realtà sia mera rappresentazione o fenomeno. La filosofia dell’Io di Cartesio, nella quale tutto si riduce a fenomeno interno alla coscienza, non salva i fenomeni. Velazquez è realista, rappresenta le cose, per descrivere le sue opere le parole sono superflue, serve invece cultura e tanta attenzione. E’ un fatto che la pittura realistica di quel livello conduce a una soluzione sorprendentemente simile alla filosofia cartesiana dell’idea. Certo, mentre il realismo russo si avvicina vagamente alla sostanziale “verità” realistica, il realismo USA che deriva dalla Pop Art è pittura cartellonistica.
Nel libro “Le parole le cose” di Michel Foucault, pubblicato nel 1966,il filosofo tenta l’interpretazione, o meglio dà una propria interpretazione della opera di Velazquez: “Las Meninas” All’inizio del libro descrive in modo dettagliato l’opera del pittore madrileno, ritorna con un richiamo a pagina 77. L’esposizione dettagliata del quadro, sotto il titolo “Damigelle d’onore”, esamina con puntigliosa precisione la posizione del re nell’opera, e parla di “ritorno al linguaggio”. Tema altamente speculativo, segue la non meno profonda analitica della “finitudine”. L’analisi si avvale della raffinata dialettica nella quale Foucault è maestro, ma sembra cadere vittima dei propri paradossi. Cosa significa, nella elaborazione ermeneutica l’affermazione “ritorno del linguaggio”? Quando mai il linguaggio andò perduto così da renderne possibile il ritorno? Il lettore, intimidito dalla colta dissertazione del maestro, forse rinuncia a chiedersi in quale epoca all’intera umanità si è creato un buco nero nella storia del linguaggio. Tutta la cultura sembra essere messa in forse dalla semplice affermazione di Foucault che pare aver scoperto la base della ragione dell’intero occidente. Entrano nel giudizio Platone, Aristotele, gli stoici così come i grammatici antichi che stabilirono le basi del nostro comunicare, gli eroi omerici, Kant. Tutti costoro, e molti altri si sono pronunciati sui temi che Foucault sembra scoprire oltre 2000 anni dopo.
Scrive Marcuse: “ Un intima necessità distingue l’opera d’arte autentica da quella non autentica, e questa è l’impossibilità di cambiare di una sola riga un singolo suono”. Si tratta certo di una “tirannia della forma”. Tuttavia con ciò non viene meno l’immediatezza dell’espressione, ma solo la falsa immediatezza, falsa nella misura in cui trascina con sé il mondo riflesso di una realtà mistificata.
In difesa della forma estetica,Bertolt Brecht osservava nel 1921: “Mi accorgo di diventare sempre più un classico”. Sono vani tutti gli sforzi esasperati dell’impressionismo per espellere con ogni mezzo certi contenuti banali destinati a diventare prima o poi classici.
Si rimprovera ai classici la sottomissione alla forma mentre in realtà, in un’opera riuscita, è la forma ad essere sottomessa.
In ogni caso, se la tesi di Marcuse è corretta, dovremmo concludere che tre quarti delle opere teatrali classiche sono state cancellate dalla lettura e messa in scena in chiave contemporanea. Significa che l’arte web, che ha la pretesa di attuare una interpretazione in chiave tecnologica di opere classiche, è totalmente negativa.
L’essenzialità, o se si preferisce l’aridità formale di molte opere contemporanee, deriva dalla incapacità di trasfigurazione estetica di una realtà che si fa materia di pensiero.
Alcuni personaggi letterari sono entrati a far parte del nostro immaginario, dei nostri ricordi, abbiamo l’impressione di avere condiviso con loro una parte della nostra vita, la parte immaginaria nella quale loro sono stati protagonisti.
E’ questa creazione di una realtà separata che si radica nella nostra memoria la differenza sostanziale tra l’arte vera e opere che sono solo frutto di velleità concettuali, facili ricorsi alla ormai inutile provocazione.
L’arte è parte di un gioco linguistico le cui regole sono costantemente violate in una prassi che contrasta lo spirito di Wittgenstein quando sostiene che padroneggiare il linguaggio è base di una corretta comunicazione. La filosofia dovrebbe stabilire un legame tra ciò che è dipinto e ciò che è pensato. Non a caso il linguaggio del segno finisce per dover ricorrere a una narrazione verbale, un’ermeneutica che altro non è se non una forzata attribuzione di significato.
Già ai primordi della filosofia, l’ontologia di Eraclito, il lessico dei sofisti, nell’offrire l’abbrivio alla elaborazione del pensiero filosofico hanno creato le basi per la conoscenza.
Aristotele raccoglie e amplifica il pensiero di Eracle l’oscuro, in uno spazio di riflessione dialettica nella quale include gran parte del sapere dell’epoca in cui visse. Il suo impegno gli valse il titolo di: maestro di coloro che sanno.
L’arte moderna è lontana anni luce dalla profondità di pensiero che ha articolato la storia della evoluzione culturale. Con supponenza gli artisti hanno attuata un cesura con il sapere “inutile”, secondo la definizione di Bertrand Russell, ed hanno optato per la tecnologia finendo per diventare una parodia triste, priva di vera capacità creativa, adagiata sulla pretesa apodittica di chi attribuisce a se stesso lo status di artista e si attribuisce capacità che non possiede. Purtroppo nel vuoto culturale del nostro tempo tutto viene accolto e celebrato per ragioni che sarebbe forse interessante quanto inutile indagare.
Scrive Max Scheler :”L’uomo contemporaneo tende a trascendere se stesso in quanto essere naturale, in questo modo avvia l’estinzione della civiltà come è andata configurandosi nei millenni”.
Di cosa si nutre, di cosa potrebbe nutrirsi il pensiero creativo? Se anche un artista sceglie la solitudine, decide di vivere lontano dalla confusione urbana, resta comunque influenzato dalla realtà che filtra inevitabilmente nel suo quotidiano.
La contemporaneità è caratterizzata dal disincanto che spesso tracima nel cinismo, le spinte ideologiche che muovevano gli artisti ancora 50 anni fa, si sono arenate nelle spire del ludico mondano, l’eccesso di leggerezza ha fatto evaporare il pensiero creativo ormai alieno ai fenomeni culturali perché assolto nella effimera prassi sociale.
Hegel dichiara: “qualcosa è conosciuto come limite, come carenza, deficienza, solo quando quel limite e quella carenza sono state superate”.
Per Bertolt Brecht: “ Un’opera che non esibisce la propria sovranità nei confronti della realtà, non è un opera d’arte”. E’ necessario il superamento, una fertile dinamica mentale che non si areni nella estemporaneità.
Husserl ha affrontato il tema partendo dall’ontologia formale e la dialettica del superamento creativo. Il rifiuto della logica da parte degli artisti porta a procedere in modo oggettivistico ritenendo di essere possessori di verità. Ma, come affermava Nietzsche: “Una verità importante ha bisogno di critica, non di lode”. La critica d’arte enfatizza, non attua una reale ermeneutica dell’opera, attuando un procedere relativistico che Husserl ritiene insensato.
Quello che costituisce valore e significato di un opera, non è quello che il singolo crede e pensa della sua creazione, bensì il rapporto tra la sua creazione e la realtà.
Dice Epicuro: “…Come giudichiamo positiva la scienza medica, non a cagione della sua capacità stessa ma in ragione degli effetti sulla nostra salute. I fenomeni artistici, per loro natura, non sono soggetti alla codificazione e, come i fenomeni sociali, sono basati sulla apparenza, spesso estranei alla realtà storica in atto.
Heidegger intende la storicità un modo dell’essere la cui filosofia deve riconoscere nell’uomo l’esistenza particolare, solo in questo modo originario anche l’arte può conferire senso alla narrazione storica.
Nietzsche considera significativa l’arte quando è frutto di energia spirituale. In “ La nascita della tragedia”, a proposito dell’arte senza valore egli cita un proverbio indiano: “Rosicchiare un corno di vacca è inutile e accorcia la vita: ci si logora i denti e non se ne ricava alcun sugo”.
Propedeutica all’arte statunitense è la filosofia di William James e John Dewey il cui pragmatismo è l’esatto opposto dell’immaginazione che ha caratterizzato l’arte a partire dai greci.
Come viene trattata l’arte nella filosofia e nella critica d’arte USA costituisce la rinuncia anche al concetto di creatività, a cominciare da ciò che definisce l’epistemologia artistica.
L’artista non eccederebbe in soggettivismo se solo riflettesse sul fatto che nessuno può vedere se stesso, addirittura l’umanità, come se fosse un soggetto libero da determinate condizioni psicologiche, storiche, esistenziali.
Ernst Mach vede il problema dell’arte come un’azione che trasformala la realtà nel momento in cui la rappresenta.
Una ostinata tradizione dipinge l’atteggiamento estetico come contemplazione passiva del dato immediato apprensione diretta di ciò che viene presentato, incontaminato da qualsiasi concettualizzazione, isolata da tutti gli echi del passato,da tutte le minacce e promesse del futuro.
Non c’è dubbio che filosofia e critica d’arte hanno creato e radicalizzato una serie di luoghi comuni che prescindono dall’osservazione e concretezza operativa e realizzatrice di un’opera. E’ certamente difficile tentare di sgomberare il campo da riti falsamente purificatori che pretendono di spogliarsi di ogni pregiudizio nel momento stesso in cui lo creano.
Non esiste la possibilità d’interpretazione basata su una visione originaria, immacolata del mondo. E’ necessario sottolineare ancora una volta le aporie filosofiche e le assurdità estetiche che una siffatta concezione pretende di difendere. A meno che si ritenga di adottare un atteggiamento passivo di fronte a un opera d’arte, in questo caso significa rinunciare alla comprensione. Forse il giusto atteggiamento è osservare l’opera e tentare di leggerla cognitivamente al livello di cultura e conoscenza che ciascuno possiede.
La pittura, tanto quanto la poesia, realizzano un’esperienza estetica dinamica. Dobbiamo quanto meno tentare di operare le necessarie discriminazioni, evidenziare le delicate relazioni, le sottili identificazioni, riesumare sistemi simbolici e caratteri propri che il sistema dell’arte esprime, o dovrebbe esprimere. In breve, dovremmo tentare di porre l’opera all’interno di un sistema di significati, nel contesto del quale è realizzata e, in quell’ottica, tentare una lettura.
In questo processo si denota e si esemplifica l’interpretazione delle opere, si riorganizza nelle opere la lettura del mondo pro quota artistica. Il mondo, e gran parte delle nostre esperienze e delle nostre competenze hanno un ruolo importante, e possono essere trasformate dall’incontro tra l’opera e la nostra interpretazione, questo perché l’atteggiamento estetico è un atteggiamento mobile di ricerca ed esplorazione.
Cosa distingue l’attività estetica dagli altri comportamenti intelligenti? Qual’è la nostra percezione dei fenomeni della vita quotidiana, la nostra condotta,nel rispetto della rappresentazione estetica? La risposta che viene solitamente data è che l’estetico, contrariamente alle nostre scelte ordinarie, non ha un fine pratico. Non mira alla acquisizione di beni necessari, non si pone come obiettivo il controllo della natura. L’atteggiamento estetico non riconosce scopi pratici al proprio operare.
Chi scrive ritiene invece che sia frutto di malafede culturale porre l’arte sull’altare della purezza creativa, assumendo che l’artista è avulso dalle realtà quotidiane. La nostra esperienza c’insegna che non è così. Anche senza ricorrere alla boutade di Andy Warhol che recita: “ogni artista è innanzi tutto un uomo d’affari”, sappiamo che l’artista non vive una realtà separata, lo stereotipo dell’artista con la testa nelle nuvole, non interessato e non coinvolto nella realtà, è una immagine falsa e retorica. Ma anche supponendo assenza di scopi, questo non è sufficiente a caratterizzare l’atteggiamento estetico ed esplorativo e dare valore e significato all’opera. Come scriveva Oscar Wilde: “ Le peggiori opera d’arte sono realizzate con le migliori intenzioni. La ricerca di conoscenza, l’accumulo di epistemologia, hanno necessariamente scopi e conseguenze pratiche, l’artista è interessato al conseguimento di un risultato che acquista significato solo nel momento in cui è condiviso socialmente. Nessun artista lavora solo per se stesso, a meno di considerare rari casi di patologia mentale.
La questione del bello in arte non è mai stata chiarita e forse non è possibile alcun chiarimento. La leggibilità del mondo, come recita il titolo di un libro di Hans Blumenberg, è particolarmente complessa perché attiene a scelte squisitamente soggettive. Nella critica del Giudizio Kant si dilunga in teorizzazioni che sicuramente hanno una loro validità, ma di certo non incidono sul complesso di scelte estetiche basate su prerogative personali.
Hermann dà un’esatta introduzione all’analisi sociale del Kitsch: “ Poiché il Kitsch non potrebbe nascere né sussistere se non ci fosse l’uomo Kitsch che ama il Kitsch, che come produttore d’arte lo vuol produrre, e come consumatore è pronto a comprarlo”. Quando parliamo di Kitsch l’idea corre a qualcosa di particolarmente brutto, il Kitsch è espresso soprattutto dalle persone. Certi abbigliamenti, certo esibizionismo sociale, e anche piercing e tatuaggi,
Secondo Nelson Goodmann: “Il problema del brutto si dissolve; perché il piacere e la gradevolezza non definiscono né misurano l’esperienza estetica”.
La dinamica del gusto , è spesso imbarazzante ma diventa anch’essa comprensibile alla luce dei comportamenti di massa.
Nel 2007 Umberto Eco pubblicò “Storia della bruttezza” , una silloge d’immagini, di opere d’arte che, a giudizio dell’autore, sono rappresentative della bruttezza. Le opere comprendono arte classica e arte contemporanea. Mentre i soggetti dell’arte classica sono comunque realizzati con sapienza pittorica, l’arte contemporanea è spesso costituita da happening e trovarobato di cattivo gusto che in qualche caso pretende di avere motivazioni ideologiche, in sostanza emerge il mito della libertà di scelta, pretesto che giustifica le scelte peggiori.
Nel volume “La scuola di Francoforte” pubblicato da Rolf Wiggershaus nel 1992 (Ed.Bollati Boringhieri) L’autore narra la storia delle tesi sociali che Adorno, Horkheimer, Marcuse tentarono di elaborare. Purtroppo tali teorie furono affossate dal ’68, nonostante i sessantottini affermassero di richiamarsi ai pensatori francofortesi. Marcuse nel libro “La dimensione estetica”, prese le distanze dai movimento del ’68 e da certa arte femminista che proprio allora andava emergendo. A pagina 57 della edizione Oscar Mondadori pubblicato nel 1977, Marcuse scrive: “ Sebbene si sia cercato di sostenere che la pornografia e l’osceno rappresentano isole di comunicazione anticonformista, simili aree privilegiate tuttavia non esistono: da molto tempo l’osceno e la pornografia risultano infatti integrate e recano anch’esse in quanto merci il messaggio della realtà repressiva”. Ventidue anni prima, nel 1955, lo stesso autore pubblicò “Eros e Civiltà”.
E’ sempre valido l’ammonimento di Kant: “Nessuno riuscirà mai a raddrizzare il legno storto dell’umanità”.
Il bello dell’arte non è stato soppresso per o con motivazioni socio-culturali o ideologiche, semplicemente la bellezza non può far parte del bagaglio culturale di una società i cui intellettuali anziché essere orientati dal “bello interiore”, lo considerano un impaccio. La cultura contemporanea attua il tentativo di trascendere l’essere umano come essere naturale. L’esito finale sarà presumibilmente una creatura bionica, senza etica e sentimenti.
Immagine Cindy Sherman, 1992, Senza Titolo
Una ostinata tradizione dipinge l’atteggiamento estetico come contemplazione passiva del dato immediato apprensione diretta di ciò che viene presentato, incontaminato da qualsiasi concettualizzazione, isolata da tutti gli echi del passato,da tutte le minacce e promesse del futuro.
Non c’è dubbio che filosofia e critica d’arte hanno creato e radicalizzato una serie di luoghi comuni che prescindono dall’osservazione e concretezza operativa e realizzatrice di un’opera d’arte. E’ certamente difficile tentare di sgomberare il campo da riti falsamente purificatori che pretendono di spogliarsi di ogni pregiudizio nel momento stesso in cui lo creano.
Non esiste la possibilità d’interpretazione basata su una visione originaria, immacolata del mondo. E’ necessario sottolineare ancora una volta le aporie filosofiche e le assurdità estetiche che una siffatta concezione pretende di difendere. A meno che si ritenga di adottare un atteggiamento passivo di fronte a un opera d’arte, in questo caso significa rinunciare alla comprensione. Forse il giusto atteggiamento è osservare l’opera e tentare di leggerla cognitivamente al livello di cultura e conoscenza che ciascuno possiede.
Una pittura, tanto quanto una poesia, realizzano un’esperienza estetica dinamica. Dobbiamo quanto meno tentare di operare le necessarie discriminazioni, evidenziare le delicate relazioni, le sottili identificazioni, riesumare sistemi simbolici e caratteri propri che il sistema dell’arte esprime, o dovrebbe esprimere. In breve, dovremmo tentare di porre l’opera all’interno di un sistema di significati, nel contesto del quale è realizzata e, in quell’ottica, tentare una lettura.
In questo processo si denota e si esemplifica l’interpretazione delle opere, si riorganizza nelle opere la lettura del mondo pro quota artistica. Il mondo, e gran parte delle nostre esperienze e delle nostre competenze hanno un ruolo importante, e possono essere trasformate dall’incontro tra l’opera e la nostra interpretazione, questo perché l’atteggiamento estetico è un atteggiamento mobile di ricerca ed esplorazione.
Cosa distingue l’attività estetica dagli altri comportamenti intelligenti? Qual’è la nostra percezione dei fenomeni della vita quotidiana, la nostra condotta,nel rispetto della rappresentazione estetica? La risposta che viene solitamente data è che l’estetico, contrariamente alle nostre scelte ordinarie, non ha un fine pratico. Non mira alla acquisizione di beni necessari o di lusso, non si pone come obiettivo il controllo della natura. L’atteggiamento estetico non riconosce scopi pratici al proprio operare.
Chi scrive ritiene invece che sia frutto di malafede culturale porre l’arte sull’altare della purezza creativa, assumendo che l’artista è avulso dalle realtà quotidiane. La nostra esperienza c’insegna che non è così. Anche senza ricorrere alla boutade di Andy Warhol che recita: “ogni artista è innanzi tutto un uomo d’affari”, sappiamo che l’artista non vive una realtà separata, lo stereotipo dell’artista con la testa nelle nuvole, non interessato e non coinvolto nella realtà, è una immagine falsa e retorica. Ma anche supponendo assenza di scopi, questo non è sufficiente a caratterizzare l’atteggiamento estetico e esplorativo e dare valore e significato all’opera. Come scriveva Oscar Wilde: “ Le peggiori opera d’arte sono realizzate con le migliori intenzioni. La ricerca di conoscenza, l’accumulo di epistemologia, hanno necessariamente scopi e conseguenze pratiche, l’artista è interessato al conseguimento di un risultato che acquista significato solo nel momento in cui è condiviso socialmente. Nessun artista lavora solo per se stesso, a meno di considerare rari casi di patologia mentale.
Le emozioni sono ovunque le stesse ma la loro rappresentazione artistica varia da un’epoca all’altra da un paese all’altro. Siamo educati ad accettare convenzioni in coerenza con la società nella quale viviamo. Purtroppo in questi ultimi decenni abbiamo perso il collegamento psico-sociale della società così come è andata configurandosi negli ultimi decenni. Sembra che ci sia una diffusa incapacità di capire cultura e l’arte che sono la nostra storia, la base stessa della nostra civiltà.
Oggi la nostra società è femminilizzata, lacrime ed emozioni sono provocate dai più futili stimoli. Ciò che accade ai confini dell’espressione,nella differenza del possesso del sapere, il metaforismo è sfumato nella estemporaneità e non meditata superficialità. La lettura dell’arte non è in chiave culturale ma mondana il che impedisce di veder le differenze sostanziali. Un quadro di Albert ha una determinata costruzione, certi colori, in che misura siamo in grado di leggere la relazione tra forme, dimensione, colori? La lettura di un’opera non è sempre facile, lo status di una proprietà non è solo la rappresentazione letterale, ma il significato che in qualche caso ha aspetti oscuri e profondi che andrebbero indagati.
Esprimere significa interpretare. La natura dell’arte è essenzialmente metaforica, intrepido scavalcamento dei confini della ordinaria visione. Un acquarello di Dὔrer, un dipinto di Jackson Pollock, una litografia di Soulage, pur nella diversità della forme espressive e di valore, rappresentano un tentativo che verrà, o dovrebbe essere sottoposto al giudizio critico.
Le analisi delle funzioni simboliche dell’arte sono state radicalmente sostituite da stereotipi convenzionali. Alcuni studiosi, in conformità al temperamento e alla loro cultura, hanno considerato l’espressione come qualcosa di superato, pleonastico,nella società del frettoloso consumo di immagini. E’ in questo modo che si è finito per attuare una sorta di traslitterazione dal pensiero creativo all’adattamento mondano. Basta variare l’etichetta applicarla a qualsiasi oggetto. Certa arte pretende di attuare una metafora letterale, il che è semplicemente un ossimoro. Si dimentica la differenza tra espressione e rappresentazione. Esprimere significa mostrare, raffigurare. Possono esserci rappresentazioni stereotipate e pur tuttavia, anzi proprio perché stereotipate, possono più facilmente entrare nell’immaginario collettivo. La strada del successo può essere più facile con la banalizzazione. Warhol e molta arte statunitense ha percorso con successo questa strada. Come già detto, l’esemplificazione scontata è in genere più eloquente, può essere stimolante anche se banale. Una proprietà espressa per quanto debba trovarsi in una relazione costante con forme letterali, non coincide necessariamente in estensioni con alcune prevedibili descrizioni letterarie della natura della metafora che l’arte dovrebbe esprimere. La scopa di Robert Rauschenberg è una banalissima provocazione. L’attitudine caratteristica dell’espressione letterale quasi sempre include insinuazioni elusive e intrepido scavalcamento dei fondamentali.
Non c’è dubbio che la morale fai da te ha il vantaggio della comodità. Risponde a pieno titolo al mito della libertà assoluta che ha radici antiche. Francois Rabelais indica la regola dei telemiti, scritte sul frontone dell’abbazia di Theleme: “ Fa’ quello che vuoi”. Thelème deriva dal greco “desiderio”. Se il mito della libertà non è mai stato facilmente realizzabile, tanto più difficile è oggi far coincidere libertà e complessità della vita moderna. Si è indotti a credere che la morale fai da te si applichi solo alla vita privata, ai gusti sessuali. In realtà non è così. Sollevare la questione se la morale abbia o meno radici religiose, addurre che, essendo nata dal pensiero umano, ha valore transitorio, è come parlare del sesso degli angeli, pleonasmi che preludono alla applicazione del detto dei telemiti. I fatti lo dimostrano. In politica, economia, nelle scuole di ogni ordine e grado, succedono cose impensabili fino a qualche decennio fa. E’ in corso una feroce polemica sui giornali che si occupano di finanza. E’ risultato chiaro che, alla base del disastro provocato dalla questione subprime, c’è stata totale assenza di moralità economica. Tempo f le Borse di tutto il mondo furono sconvolte da un improvvisa crisi economica e bancaria. Uno dei responsabili del disastro, il signor James Cayne, ovviamente statunitense, mentre fioccavano i suicidi lui si dedicava al gioco del golf, al bridge, alla marijuana, come lui, altri alti dirigenti responsabili del crollo che ha colpito molti risparmiatori. E’ di pochi giorni fa la notizia di un aereo in volo sul cielo di Washington con il primo e secondo pilota che non rispondevano alla torre di controllo semplicemente perché dormivano. Alcuni tra i più importanti Istituti finanziari americani hanno fuorviato il mercato per il proprio tornaconto. Gli USA,che fanno guerre per esportare la democrazia, poi si ritrovano ai vertici di importantissime istituzioni finanziarie personaggi privi di moralità che con il loro comportamento producono danni enormi ai risparmiatori, e in definitiva alle economie di tutto il mondo. Non è necessario aver letto i libri che teorizzano e giustificano la morale fai da te, basta il martellamento dei media, la pressione verso il pensiero unico, in questo modo si creano situazioni ambientali, abitudini e tolleranze che si generalizzano. Forse la teoria delle catastrofi, il famoso esempio della farfalla che provoca l’uragano, vale anche in ambito sociale. Forse il richiamo molto più realistico ed efficace non è alla farfalla, ma agli avvoltoi.