Goalkeeper, 1976
Storia e mito non fanno più parte del patrimonio culturale contemporaneo. Chiediamoci quindi come viene letta l’immagine della pittura oggi? Forse solo rilevando colore e forma, indifferenti al significato, quand’anche ci fosse.
La maggior parte degli artisti contemporanei non ha cultura classica e ha cancellata la traccia di una narrazione filosofica o mitologica. Quello che resta è la cultura del mainstream, un impronta tecnologica che fa il verso alla scienza. La spiritualità non fa più parte del bagaglio culturale, non solo dell’artista, ma di tutta la cultura contemporanea.
Con quale sensibilità oggi osserviamo un’opera d’arte? Potremmo fare un lunghissimo elenco di opere, soprattutto di matrice femminile, la cui essenza va oltre alla materialità per sconfinare nel laido.
L’ermeneutica delle intenzioni dell’artista è forse meno importante di quella dell’osservatore medio. L’artista opera attraverso la propria soggettività, l’osservatore invece calibra la propria comprensione dell’opera attraverso il sentire collettivo, si sente esentato dalla necessità di approfondire il significato di ciò che osserva.
Chiediamoci quale riflessione, stimolo, sensazione può suggerire, poniamo, la visione del letto sfatto di Tracy Smith?
Si deve fare i conti con un’ipocrita discrasia semantica che pervade la psicologia di massa, resa vulnerabile alla suggestione della comunicazione perché priva di anticorpi culturali.
A sua volta, la funzione sociale della scienza, come ha dimostrato il Covid19, parla attraverso una polifonia che si traduce in entropia della comunicazione influendo pesantemente sulla massa.
Temi sicuramente diversi che hanno in comune la suggestione prodotta da una comunicazione confusa, quando non sistematicamente decettiva.
La narrazione culturale ed artistica è soggetta alle stesse fonti di comunicazione, tv e giornali, ed agisce anch’essa sulla psicologia della massa contribuendo al formarsi delle opinioni come ha ben chiarito Jùrgen Habermas nel libro “Agire comunicativo e logica delle scienze sociali”.
Se ci poniamo il problema che si è posto Max Weber del giudizio di valore, scopriamo che esso si basa sulle premesse del mercato incorrendo nell’arbitrarietà dei punti di vista.
Runciman coglie assai bene il rapporto esistente tra il problema del giudizio di valore e il problema della scelta, ma deve arrendersi di fronte all’approccio a-culturale delle masse suggestionate, come abbiamo scritto, dalla imponente macchina della comunicazione che, in pratica, confluisce in operazioni di pubblicità e marketing.
Braslins: Anime selvagge. Olio su tela. S.D.
La candela, umile oggetto ormai in disuso anche se amato specie dai seguaci della new age, è stato utilizzato come oggetto di riferimento per dispute filosofiche tra Descartes e Locke che hanno scritto due storie diverse ma complementari della candela: il primo ne ha realizzato uno schema intellettuale espropriato di ogni senso comune: “ Che cosa è dunque, ciò che si conosceva con tanta distinzione in quel pezzo di cera? Certo non può essere niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, poiché tutte le cose che cadevano sotto il gusto o l’odorato o la vista o il tatto o l’udito si trovano cambiate, e tuttavia la cera stessa resta….” Locke vede invece l’altra faccia: il grado d’intensità della esperienza ordinaria che è sufficiente per non metterci un dito sopra: “ Poiché, non rispondendo le nostre facoltà alla piena estensione dell’essere, né a una conoscenza perfetta , chiara e comprensiva delle cose , libera da ogni scrupolo e dubbio, bensì soltanto alla conservazione di noi stessi, cui sono date; e rispondendo esse, da come sono costruite, all’uso della vita, servono assai bene al nostro scopo finchè ci danno soltanto notizia certa di quelle cose che sono per noi convenienti o dannose. E infatti, chi veda un candela accesa, e abbia fatto esperienza della forza della fiamma mettendovi sopra un dito, non dubiterà davvero che esiste fuori di lui, che gli fa del male…” La scienza e il senso comune si sostengono reciprocamente; cioè sono aree che si spartiscono compiti e competenze diverse. Il senso comune per Locke finisce per essere tutto ciò che non è scienza; e quindi è odore, sapore, gusto e simili entro nessi di concomitanza empirica che costituiscono guide sicure per l’orientamento pratico. Il salto che a noi pare enorme tra i risultati della scienza di oggi, sono avvenuti con gradualità nell’accettazione comune di quelli che, viste nell’ottica degli antichi, sono scoperte strabilianti.
Oggi anche la fotografia è svilita dal consumo. Folle con il telefono ritraggono ogni cosa, soprattutto se stessi.
La storia della fotografia è la narrazione di un possibile, di ciò che le immagini potrebbero narrare se guidate da una mentalità che non sia solo riproduttiva.
In Europa la fotografia è stata in buona parte guidata dal concetti del pittoresco, per esempio il povero, lo straniero. il vecchio; dall’importante, per esempio il ricco il famoso e del bello.
Le fotografie tendevano alla esaltazione o alla neutralità.
Gli americani, meno convinti della permanenza di una qualsiasi organizzazione sociale, ed esperti della realtà e dell’inevitabilità del cambiamento, hanno fatto più spesso della fotografia partigiana.
Hanno fatto fotografie non solo per mostrare ciò che bisognerebbe ammirare, ma per far conoscere ciò che occorrerebbe affrontare, deplorare, correggere.
La fotografia americana comporta una connessione più sommaria e meno stabile con la storia; è un rapporto insieme più ottimistico è più predatorio, con la realtà geografica del sociale.
L’aspetto ottimistico è esemplificato dal frequente uso che si fa della fotografia in America per destare le coscienze.
All’inizio del secolo scorso Lewis Hine venne nominato fotografo ufficiale del National Child Labor Committee, le sue fotografie dei bambini che lavoravano nei cotonifici nei campi di barbabietole e nelle miniere di carbone influirono sulla decisione dei legislatori di proibire il lavoro infantile.
Durante il New Deal, il progetto FSA di Stryker ,che era allievo di Hine, fece arrivare a Washington informazioni sugli operai stagionali e sul mezzadri,aiutando i burocrati a trovare il modo di aiutarli.
Ma anche al massimo del suo moralismo,la fotografia documentaria era, in un certo senso autoritaria, perché la fotografia ferma l’attimo del quale non fornisce giustificazione.
La fotografia è un media bizzarro. Scrive Roland Barthes in “La camera chiara” . Essa stabilisce una speciale corrente determina attrazione, ricorda avventure, porta alla memoria ricordi famigliari, amori dei quali il cuore non conserva traccia.
Quando nel 1978 pubblicai “ La gabbia sui Pirenei” , teoria sull’uso dell’immagine fotografica nell’arte, molti espressero la loro perplessità. Oggi la fotografia e gli effetti speciali dominano incontrastati la produzione artistica. Come sempre accade, con il successo subentra una sorta di decadenza, si trascurano i dettagli, il senso del racconto. Come un brutto romanzo anche la narrazione per immagini diventa banale.
La fotografia, come le parole, si presta all’inganno, ma è molto più efficace perché l’eloquenza della immagini è più incisiva, meno contestabile.
Com’era inevitabile la fotografia è anche il media per eccellenza degli eccessi, Herman Nitsch la usa per le immagini kitsch, di vagine sanguinanti e quarti di bue appesi a ganci, Cindy Sherman mostra vagina dilatate. Il brutale e il fittizio s’incrociano in racconti confusi dove spesso emerge la parte oscura dell’artista che tenta di nascondersi dietro alla realtà.
Il tema relativo alla lettura emotiva delle opere d’arte,trattata ampiamente in questi ultimi anni,cade in un equivoco di fondo; trascura le ragioni psicologiche e culturali che determinano il prevalere delle emozioni, soffermandosi prevalentemente sulle reazioni più propriamente fisiche.
Gallese e Freedberg, a esempio, non dicono espressamente che le risposte emotive esauriscono la nostra esperienza estetica, tuttavia nei loro scritti le risposte emozionali costituiscono l’aspetto centrale. Registrano il fenomeno ma non ne spiegano le cause.
L’approccio cognitivo all’arte presupporrebbe una preparazione anche di carattere filosofico che molti non hanno, scatta quindi il carattere precognitivo, ovvero emozional: non capisco ma mi piace.
Zeki addirittura sfiora il grottesco nella rozza esemplificazione che vuole l’arte sia godibile solo attraverso l’emozione, riduce oggettivamente l’opera d’arte a un teatrino di emozioni e trascura il fatto che le emozioni non sono suscitate solo dall’arte ma da una pluralità di eventi e situazioni.
Si dimentica che l’arte dovrebbe informare almeno quanto emoziona, proprio perché, in caso contrario, verrebbe messa sullo stesso livello di molte manifestazioni ordinarie, per esempio le evoluzioni di un acrobata nel circo.
Quasi tutti gli studi in materia trascurano di attuare una distinzione di genere assumendo che uomini e donne abbiano la stessa reazione emotiva, sappiamo, che non è così, soprattutto sopratutto viene trascurato l’aspetto fondamentale che ci riporta al livello di cultura dell’osservatore.
L’ esempio ci viene dalle modalità del passato della fruizione delle opere di pittura a carattere religioso. Come abbiamo tentato di dimostrare in altri scritti, la Chiesa si è servita delle immagini pittoriche per supplire allo stato di analfabetismo della massa della popolazione che non avrebbe potuto accedere alla lettura dei Vangeli e della storia religiosa.
Le opere esposte nelle chiese invitavano alla meditazione ed attuavano una suggestione capace di fare appello allo stato emozionale dei fedeli, unico modo possibile, visto che il popolo non era in grado di leggere la narrazione religiosa.
Immaginiamo il fruitore di opere moderne dotato di media cultura,non esperto conoscitore dell’arte e neppure del singolo artista. Quale può essere il suo approccio se non di carattere emozionale, anche se tale approccio non permette di recepire tutte le informazioni contenute nell’opera.
L’artista è quasi sempre consapevole di questa realtà, in molti casi adatta la sua comunicazione in modo che possa essere letta anche su basi sintetiche ed emotive. E’ questa la ragione per cui c’è stato un enorme sviluppo dell’arte astratta che, com’è noto, si basa quasi esclusivamente sull’emotività.
Cosa accade quando ci troviamo di fronte a un’opera di linee e colori, pittura fredda, non in grado di suscitare emozioni?
La risposta fornita dai teorici si affida a sofismi che vorrebbero essere sottili, ma che sono altrettanto privi di senso quanto le opere della quali vogliono accreditare il valore. Sostengono che l’osservatore scorge nell’opera il gesto del pittore, l’atto nel momento in cui realizza l’opera.
A parte che questo può avvenire con maggior frequenza anche nell’arte figurativa, ad esempio, nelle opere di van Gogh la traccia delle pennellate è ben visibile, tuttavia le singole pennellate acquistano significato nell’insieme dell’opera. Non così l’arte astratta, specie geometrica che non rileva la traccia della pennellata.
Non c’è dubbio che l’approccio emotivo riduce, se non annulla, la comprensione del contenuto cognitivo dell’opera, limita la reale comprensione dell’opera.
Quando siamo travolti dall’ansia di futuro, viviamo un esperienza di annullamento del presente. Tutto ciò che attiene alla nostra esistenza è “passato”. La cultura, tutta la cultura, è memoria storica. Parlare di futuro significa parlare del nulla, di qualcosa di cui non sappiamo come sarà, se sarà. Hume disse “ che il sole sorga domani è una mera ipotesi”. L’affermazione è ripresa da Wittgenstein nel “Trattato logico-philosophicus” nella preposizione 6.36311. Rende particolarmente spiacevole quest’ansia del nulla espressa dall’arte contemporanea. Essa registra e amplificata questo nichilismo deteriore, che è spreco di pensiero e fantasia, conoscenza approssimativa, segno del tempo. Erwin Panofski, cultore e paladino del gesto, studioso appassionato del disegno rinascimentale italiano, riusciva a leggere nelle opere d’arte un’infinità di significati, la cifra della sensibilità di uomini che non erano assillati dal progresso ma costruivano il futuro che noi stiamo vivendo.Il tempo esiste in quanto ho un presente. Nel presente ho la percezione del mio essere, il mio essere e la mia coscienza sono tutt’uno. Comunichiamo con il mondo perché comunichiamo con noi stessi. Siamo presenti a noi stessi per possedere il tempo. Non è un caso che il nichilismo contemporaneo assuma l’aspetto di fuga dalla realtà. Cioè da se stessi, non attraverso il sogno, il pensiero, neppure nell’arte si apre il varco verso l’oltre. Sono necessari additivi chimici per darci la forza di sopportare una realtà che non sappiamo vivere perché non sappiamo capirla.
Diceva Roland Barthes: la letteratura non è altro che la ricerca della parola giusta. Ma qual è, come si trova la parola giusta, adeguata ad esprimere chiaramente ciò che pensiamo?
La parole si costruisce con il pensiero,in questo senso è uno strumento che ci aiuta a decifrare la realtà. Quando la si è trovata la parola acquista una propria autonomia, diventa uno strumento con il quale costruiamo la nostra il nostro percorso di conoscenza.
Le parole sono ciò che noi pensiamo.Tutti portiamo nel nostra memoria personaggi immaginari della letteratura che, in qualche misura, sono entrati a far parte del nostro vissuto. Non accade così per l’arte figurativa, perché l’immagine limita la nostra fantasia, ciò che vediamo è ciò che ricordiamo.
Tommaso d’Aquino definiva la parola una sorta di specchio nel quale è riflesso il nostro pensiero, l’immagine da forma alla cosa pensata. Il carattere peculiare di questo specchio ha limiti che coincidono esattamente con quelli della cosa che in esso si specchia, solo quella determinata cosa, di modo che esso riflette la sola immagine. La profondità di questa immagine consiste nel fatto che la parola è qui concepita come il rispecchiamento perfetto nella cosa cioè come una sua espressione che ha lasciato ormai alle proprie spalle l’itinerario del pensiero al quale tuttavia deve la propria esistenza.
Come l’abilità del pittore consiste nel dare alle forme che crea una pluralità di significati, così colui che usa la parola dovrebbe poter dare alla propria narrazione la ricchezza di contenuto che la fantasia contiene.
Quando riflettiamo sul significato da dare al nostro pensiero attraverso le parole, ci rendiamo conto che la parola è essenzialmente imperfetta, nessuna parola umana può descrivere in modo completo ciò che proviamo dentro di noi. Rarissimi gli scrittori che si avvicinano alla interiorità dei personaggi che creano.
La poesia, forse più di ogni altra forma artistica, è lo strumento con il quale si attua il tentativo di forzare i limiti della parola, di vedere meglio le immagini dello specchio.
L’imperfezione della parola è conseguenza della incompiutezza della articolazione del pensiero che la crea, ciò non è solo un’imperfezione della parola come tale, ma un rispecchiamento opaco di ciò che il pensiero intende. Per peculiare l’imperfezione,lo spirito umano, non possiede mai una perfetta presenzialità ed è frammentato nelle diverse parti che costituiscono la riflessione.
Per questa essenziale imperfezione,consegue che la parola umana non ha mai un unico significato, ma si articola necessariamente come una molteplicità di significati. La parola acquista senso solo se collegata all’interno della struttura lessicale. Solo nel contesto linguistico la parola ottiene la propria possibile perfezione, si avvicina alla maggior compiutezza del pensiero.
La parola dunque è il prodotto del lavoro del pensiero, chi pensa la produce in se nell’atto stesso in cui pensa. Il pensiero a differenza di altri prodotti della natura umana, rimane l’elemento astratto dal quale sorge la relazione che ci consente di entrare in rapporto con noi stessi.
L’arte non è solo qualcosa di passato, ma è capace di superare con la sua peculiare presenzialità di significato le distanze temporali. In questo senso è un esempio che appare sotto entrambi questi aspetti un caso di particolare e significativo nella comprensione di se.
Infatti non è un semplice oggetto nella coscienza storica, e d’altra parte la sua comprensione implica sempre una mediazione storica che la definisce.
Qual’è dunque nei confronti dell’arte il compito dell’ermeneutica? Possiamo citare Schleiermacher ed Hegel. Essi rappresentano due visioni diametralmente opposte nella risposta al problema ermeneutico. Due visioni che caratterizzano due possibilità e concetti di ricostruzione di integrazione.
Schleiermacher si pone nei confronti della tradizione esaminando la perdita di distacco di una coscienza che muove le riflessioni ermeneutiche
Il modo in cui essi definiscono il compito dell’ermeneutica è profondamente diverso Schleiermacher è teso a ricostruire nella comprensione della fisionomia originaria di un’opera d’arte e la letteratura che si sono tramandate dal passato e le successive elaborazioni le hanno strappate dal un mondo originario. Ciò vale per tutte le arti anche per le arti letterarie ma è particolarmente evidente nelle arti figurative.
Scrive Schleirmacher: la situazione naturale originaria è già violata quando le opere d’arte diventano oggetti di scambio Infatti Ognuna di esse attinge una parte del suo significato alla sua destinazione originaria. L’opera d’arte strappata dal suo contesto,se tale contesto non è storicamente conservato, perde di significato ?L’arte è,nel senso vero e proprio, radicata nel terreno culturale e ambientale in cui è stata pensata e realizzata. Vive assorbendo l’humus dell’ambiente a cui appartiene e perde significato quando è tratta fuori da tale ambiente,diventa un oggetto di scambio diventa cioè qualcosa che ha solo più vaghi richiami con il passato.
Ovviamente resta intatto il valore costituito dal riferimento storico che richiama.
Hegel con sfumature diverse si richiama alla stessa concezione convenendo però che il significato dell’opera è legato all’ambiente originario a cui appartiene. Pertanto,per cogliere il suo significato,sarà necessaria una specie di ricostruzione che avviene attraverso l’ermeneutica.
Sostengono un tesi diametralmente opposta Dilthey, e in parte Ranke e Droysen, i quali riconoscono nell’opera d’arte un significato atemporale, prodotto dell’esperienza estetica che appartiene al mondo
Se riportiamo queste diverse concezioni alla contemporaneità, appare evidente che non è possibile applicare tali teorie alle opere d’arte contemporanea in quanto nascono senza storie e senza reali rapporti con la cultura estetica ma si muovono in un galleggiamento semantico di effimera consistenza.
La pretesa di associare la realtà eidetica alla intuizione creativa naufraga nel non senso di una narrazione dicotomica rispetto all’oggetto artistico di riferimento.
Tutte le avanguardie sono nate sul pregiudizio che ciò che l’arte era sempre stata fosse sbagliato. Il pregiudizio consiste nell’esprimere un giudizio privo di sufficiente conoscenza dell’oggetto o del tema che si giudica.
Piergiorgio Firinu “Fusioni” 1971
E’ stato scritto molto sulla rappresentazione teatrale della tragedia, forse si è trascurato un aspetto psicologico importante. Perché le persone sono attratte da situazioni di disperazione e dolore fin dal tempo dell’antica Grecia dalle opere di Eschilo e Sofocle? Quale vizio della ragione ci rende attratti da vizio, sofferenza, dolore?
Dovremmo forse convenire che nella società la salute mentale è cosa rara? Il mondo in cui si sono affrontate molte devianze è stato non considerarle tali. Nella società di massa, quando taluni comportamenti sono adottati da un certo numero di persone sono omologati e resi legittimi.
Anche l’arte, more solito, si adegua. Hermann Nitsch presenta opere con pezzi di carne sanguinante. Joana Vasconcelos, alla Biennale di Venezia del 2015 presentò un lampadario fatto con tampax. Clara Mori esibì in una mostra a Matera nel 2019, il mestruo come opere d’arte. Daniel Spoerri presentò opere d’arte costituita da avanzi di cibo e stoviglie sporche.
La domanda non è quale turbe mentali e travagli psichiatrici abbiano questi artisti, piuttosto chi sono i collezionisti che le acquistano e, presumibilmente, le espongono nelle loro case.
Qua’ è il meccanismo mentale che ci porta a accettare ciò che è brutto, laido sgradevole? Perché le donne sono in prima fila nel produrre opere che riguardano aspetti degradati del corpo e umori?
Sono passati oltre 2000 anni da quando Aristotele sosteneva che l’arte rende piacevole anche ciò che è brutto. Egli si riferiva a opere di mimesi pittorica eseguite con perizia, non avrebbe mai potuto immaginare la situazione di decadenza in cui assistiamo oggi, la tragica confusione mentale che si esprime attraverso l’arte, forse è un disperato richiamo alla possibilità di salvezza attraverso l’arte?
La mestizia tragica provocata dalla mancata presa di coscienza e incapacità di controllo della ragione, impotente perché sovrastata dal dominio del corpo nei sui aspetti più triviali. In questa situazione il mito estetico della fantasia e della capacità creatrice dell’artista non supera la prova dei fatti. L’esistenza si arena e si perde annaspando nel vuoto mentale.
Al di là della considerazioni estetiche che sarebbero pleonastiche in presenza delle opere citate, resta inesplorato il lato oscuro della cultura la quale, con speciose argomentazioni ermeneutiche, si ostina a sostenere che certa arte abbia una ragione e un significato.
Herman Nitsch. L’ arte sanguina.
La retorica affermazione “l’arte parte da dove la scienza si ferma” ritengo non corrisponda al vero. Gli artisti hanno cessato da tempo di rappresentare la bellezza della natura attuando la mimesi, la scienza ha fatto enormi passi verso la conoscenza, ma ha disseminato il percorso di disastri, oggi si cerca di correre ai ripari.
Le regole metodiche delle scienze hanno prodotto una sorta di estraneità verso la natura e comunicato un senso di onnipotenza tecnologica. Dovremmo provare ad esaminare con attenzione in cosa consiste lo sviluppo tecnologico e cosa produce. Non è questa la sede per tale esame, ciò a cui possiamo accennare sono le ricadute di carattere socio-culturale e psicologico nel mondo dell’arte.
E’ possibile aver creata una “interiorità tecnologica” ? Qualcosa deve essere successo, visto che gli artisti si arrendono alla tecnologia e buttano a mare secoli di epistemologia artistica.
Se l’arte finisce per avere come riferimento concetti teleologici basati sulla produttività tecnica, la domanda che segue è: per produrre cosa? Verso quale escatologia? Risposta inevitabile: il mercato.
Quando Husserl usa il concetto di Erlebnis, per lo più rozzamente tradotto con il termine:avventura, ritiene che il riferimento sia la coscienza, nella sua libera attività di immaginazione creativa. A costituire la coscienza sono anche il vissuto, ciò che abbiamo imparato e sperimentato nel corso del costante flusso della nostra esistenza.
Coscienza significa consapevolezza delle nostre azioni delle quali dovremmo almeno tentate di avere il controllo, sul piano emotivo e pratico.
Bergson nel 1899 pubblica “ I dati immediati della coscienza” , il libro contiene dure critiche alla psicologia del suo tempo. Egli prende in esame l’intima compenetrazione di tutti gli elementi della coscienza e si schiera contro la scienza oggettivante. La sua presa di posizione è destinata all’insuccesso.
L’opera d’arte, in quanto costituisce un mondo a se, si stacca da tutti i nessi con la realtà oggettiva, è ispirata da ciò che rappresenta l’essenza specifica dell’avventura della mente creativa che sperimenta di volta in volta nelle forme di una sensibilità gnoseologica. La vera opera d’arte è un’avventura estetica che rinnova il confronto tra pensiero e forma, essa viene intesa come la pienezza della rappresentazione simbolica, metafora di una realtà immaginata che, anche se non realizzata, trasmette energia psichica e ci aiuta ad affrontare il presente. Arte come nutrimento della sensibilità e dell’intelletto.
Ernst. R. Curtius, nel suo libro sull’estetica del Medio Evo rappresenta bene questa possibilità. Ripreso da Ronald G. Witt in “L’eccezione italiana”, seguendo i concetti di simbolo e allegoria.
Georg Lukàcs attribuisce alla sfera estetica una struttura eraclitea, intendendo con ciò che l’unità del soggetto estetico non è un dato reale. Vista in quest’ottica l’arte astratta è una tautologia.
Ogni rappresentazione è una rappresentazione per qualcuno. E’ necessario quindi che l’artista e l’osservatore condividano lo stesso codice, a prescindere dal livello culturale. Le immagini religiose con le quali la Chiesa Medioevale comunicava con i propri fedeli, la maggioranza dei quali erano analfabeti, erano condivise anche senza ermeneutiche iconologiche.
Anche l’arte contemporanea ha un proprio codice di lettura calibrato,più o meno consciamente, su etica e cultura della società di oggi. La società infatti accetta, esalta e compra: orinatoi, rane crocifisse, barattoli di merda, fotografie pornografiche.
Winckelmann, il cui influsso fu determinante per la estetica e la filosofia della storia della sua epoca, usa i due concetti, simbolo e metafora come sinonimi, e così fa tutta la letteratura estetica del XVIII secolo. I significati delle due parole hanno infatti una origine di comune; entrambe indicano qualcosa il cui senso non risiede nell’ apparenza immediata, sia l’aspetto visibile o la lettera del discorso, ma in una significazione che va al di là di essa. Ciò che hanno in comune è dunque il fatto che una certa cosa sta per qualcos’altro. Tale connessione di significati, mediante la quale ciò che non è sensibile diventa percettibile con i sensi, ha luogo nel campo della poesia e dell’arte figurativa.
Solo un’indagine accurata potrebbe stabilire più precisamente in che misura l’uso antico dei termini simbolo è allegoria abbia aperto la via alla contrapposizione che per noi è diventata familiare. Possiamo indicare solo alcune linee fondamentali. Ovviamente i due concetti non hanno all’inizio nulla a che fare l’uno con l’altro. L’allegoria appartiene originariamente alla sfera del dire del logo ed è quindi una figura retorica o ermeneutica. Al posto di ciò che realmente si intende, si dice qualcos’altro, di più facilmente comprensibile, ma in modo che questo faccia intendere quell’altro.
Il simbolo invece, non è limitato alla sfera del logos, giacché il simbolo non è in rapporto con un altro significato mediante il proprio significato, ma il suo stesso essere sensibile ha significato. Nel suo essere presentato è qualcosa di cui si riconosce qualcos’altro più facilmente comprensibile.
Nel secolo XVIII quando si parla di allegoria si pensa sempre anzitutto le arti figurative.
La posizione positiva di Winckelmann nei confronti della allegoria non corrisponde affatto ai gusti dell’epoca e contrasta con le opinioni dei teorici contemporanei.
Il moderno concetto di simbolo non si può comprendere prescindendo dalla funzione gnostica. Il termine simbolo può passare dall’uso originario in cui sta a indicare il documento, il segno di riconoscimento, al concetto filosofico in cui diventa qualcosa di misterioso, la cui decifrazione è riservata agli iniziati. Il simbolo indica un’esistenza in cui in qualche modo viene riconosciuta l’idea.
La liberazione della poesia dall’allegoria come la propugna Lessing, significa anzitutto la sua liberazione dalla sottomissione al modello delle arti figurative.
Winckelmann sembra soggetto all’influsso di Wolff e Baumgarten, quando scrive che il pennello del pittore deve essere intinto nell’intelletto. Egli non respinge l’allegoria in generale quindi non si rifà l’antichità classica per svalutare in confronto ad essa le allegorie moderne.
Schiller , nel fondare l’idea di un’educazione estetica dell’umanità sull’analogia di bellezza e moralità formulata da Kant, si ricollega a indicazioni esplicite kantiane nella quali è posto l’accento sul fatto che il simbolo è l’idea stessa che si da esistenza.
Adattare alla contemporaneità le teorie classiche che hanno tentato di dare all’arte un contenuto gnoseologico e di arricchimento della sensibilità umana appare oggi impresa tanto ardua quanto inutile